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“Orientarsi” con Amin Maalouf

Creato il 15 marzo 2013 da Chiarac @claire_com_

Repetita iuvant, soprattutto quando sono parole importanti come quelle dello scrittore libanese Amin Maalouf. Maria Paola Palladino era a Torino, tra il pubblico del FeFiFra, su cui ho scritto molto nelle ultime settimane. Queste sono le sue riflessioni. Buona lettura, come sempre.

di Maria Paola Palladino

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Non ricordo con esattezza quando incominciai a leggere per la prima volta alcuni passi in lingua araba di Leone l’Africano di Amin Maalouf… Credo che sia stato nel 2004, o 2005, quando frequentavo un corso universitario volto proprio all’approfondimento delle tecniche di traduzione dall’arabo all’italiano. Sì, dev’esser stato in questa sede accademica, e quindi in una veste molto ufficiale, che conobbi quest’autore, per ritrovarlo poi – di nuovo in lingua araba, ma anche in francese e in italiano, in quanto ormai le sue opere sono tradotte in numerose lingue – nel 2006 in L’identità, Le crociate viste dagli Arabi, Samarcanda… Tuffarmi, nel vero senso della parola, nella sua scrittura così limpida, lineare e trasparente, mi aveva all’epoca rassicurata in un periodo un po’ buio della mia vita, così come oggi, a distanza di molti anni, le sue parole e il suo ultimo romanzo, nonostante il titolo poco promettente in tal senso, I disorientati, suscitano in me un senso di serenità, pace ed equilibrio.

Come ripetuto a più riprese dallo stesso Maalouf, giovedì sera scorso (il 28 febbraio, NdR), durante il suo intervento presso il Circolo dei Lettori di Torino, nell’ambito del FFF – Festival de la Fiction Française, tutti siamo, infatti, un po’ “disorientati”, nel senso di aver perso l’orientamento, la retta via – sempre che ne esista una in assoluto –, ma anche e soprattutto in quanto “senza Oriente” (nel caso specifico della storia narrata nel romanzo, senza Levante, Libano). In altre parole senza un’idea, un’immagine, un atteggiamento e un modo di rivolgersi e rapportarsi precisi, sicuri ed efficaci nei confronti di questa zona geografica del mondo, nonché delle popolazioni che la abitano e degli avvenimenti per lo più nefasti che qui si susseguono ormai da anni.

L’importante è prender coscienza di tale disorientamento e cercarne una “via d’uscita” che, nel caso specifico e personale di Maalouf, si può rintracciare nella scrittura, in particolare nella scrittura di un romanzo così introspettivo come quello presentato a Torino.

Nel libro, tuttavia, ad esser “disorientato” non è solo l’autore o il protagonista, anche voce narrante, Adam, ma perfino un intero gruppo di vecchi amici: alla domanda rivoltagli a Torino da Cesare Martinetti, sul carattere autobiografico di quest’opera, lo scrittore ci ha tenuto a sottolineare come tale personaggio sia effettivamente una sorta di ritratto di se stesso e di quanto vissuto durante la propria giovinezza trascorsa in Libano, ma anche che, al tempo stesso, ad esser in qualche modo autobiografico sia più che altro il contesto a cui si rimanda nel romanzo; i personaggi, incluso Adam, per quanto molto simile a Maalouf (anche lui è docente universitario di storia e vive a Parigi…) sono invece frutto della pura immaginazione e creatività dell’autore.

Il fatto stesso che il suo paese natale, in cui ha deciso di ambientare gran parte di quanto narrato, ossia il Libano, non venga mai espressamente citato in quanto tale ma, al contrario, con lo pseudonimo di “Levante”, è un modo per Maalouf di creare un collegamento tra questo paese e la realtà che vi si ritrova, quindi tra l’aspetto autobiografico della narrazione, e qualsiasi altro paese del globo dove episodi analoghi a quelli narrati si sono potuti verificare nel passato o si potranno avere anche in futuro. L’attenzione è principalmente focalizzata sulla storia – o meglio le storie – che unisce il gruppo di amici e sulle dinamiche relazionali presenti tra i vari membri del cosiddetto “circolo bizantino”, come solevano definirsi in gioventù.

Maria Paola con Amin Maalouf

Maria Paola con Amin Maalouf

Mentre Maalouf ci parlava del suo ultimo romanzo, l’aria era fortemente impregnata di nostalgia: un velo di tristezza mista a un sentimento di gioia nel suo narrare/ricordare sembrava aleggiare sul pubblico profondamente attratto ed attento alle parole dell’autore tanto da applaudirlo spontaneamente e a più riprese. Non si trattava unicamente, tuttavia, di una nostalgia verso il passato, quanto – come ripete spesso la voce narrante, Adam – verso ciò che non c’è mai stato, verso il futuro tanto auspicato da quella gioventù sessantottina di cui Adam, ma anche lo stesso Amin Maalouf, fanno parte. Nostalgia verso quei sogni di libertà, tolleranza, convivenza pacifica… mai realizzatisi né in Libano, né in altre regioni del mondo dove purtroppo, come in Oriente, questi valori e le opinioni che essi suscitano sono alla base dei più sanguinosi conflitti. Forse, più che nostalgia, è la disillusione intima e collettiva la sensazione che domina nel romanzo, una disillusione nata in seno e a causa del conflitto.

Ed è proprio sulla guerra che Amin Maalouf, durante la serata, ritorna spesso: la guerra che sporca tutti coloro che hanno la sfortuna di viverla sulla propria pelle; la guerra che spesso non lascia spazio al libero arbitrio, che decide lei stessa per le persone, facendone assassini, carnefici, ladri e, nel contempo, vittime, oppressi… Chiunque, nonostante le sue innumerevoli potenzialità, in stato di guerra, può facilmente “sporcarsi le mani”, come è facile, per chi fugge dalla guerra, emigrando all’estero il più delle volte, mantenerle pulite!

Allora dove sta il tradimento e la fedeltà nei confronti della propria patria e del proprio popolo? Chi è nel giusto, chi invece sbaglia? Chi emigra, abbandona il proprio paese in una situazione del genere, o chi resta per salvarlo o per lo meno per provarci, con il rischio di rimetterci la propria vita e quella dei propri cari? Chi guarda da lontano o chi lo fa da vicino? Nel romanzo ritorna spesso questo quesito, tra i vari personaggi, tra gli amici partiti e quelli rimasti in Libano, tutti convinti delle proprie ragioni per aver fatto una scelta o la sua opposta; e sembra che si tratti di un dilemma anche personale per Maalouf stesso che, forse, ha sentito il bisogno, a poco più di sessant’anni, di affrontare. Per l’autore libanese, tuttavia, non ci sono né traditori né fedeli: come in ogni scelta, piccola o grande che sia, decisiva o meno per la vita di una persona e di chi la circonda, la colpa, la responsabilità del proprio agire e di quello altrui sono da dividere a metà. In altre parole, a seconda dei punti di vista, si è un po’ tutti, nel momento stesso in cui si sceglie, traditori e fedeli ai propri ideali.

Il romanzo di Maalouf si inserisce alla perfezione in un’epoca come la nostra, di questa ormai famosa e fantomatica “crisi” diventata internazionale, in un’epoca in cui, riferendosi all’Oriente, si continua a parlare di “primavere arabe” (sebbene questo termine sia alquanto riduttivo o per lo meno fin troppo positivo, visto che in questa parte del mondo si susseguono piuttosto inverni, autunni… e manca perciò ancora molto prima che si raggiunga la primavera!). Come capita al protagonista Adam che rimane “sospeso” alla fine del romanzo, così oggi i rapporti tra l’Occidente e l’Oriente sono ancora “sospesi”, in attesa di “orientarsi” nel giusto verso. E certamente le riflessioni a cui è indotto il lettore di questo romanzo, sono un notevole passo in avanti in questa direzione.

Per saperne di più su Amin Maalouf: http://www.aminmaalouf.net (blog ufficiale)


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