(di Tommaso Cerno E Susanna Turco - l'Espresso)
A far peccato ci s'azzecca, recita la massima più abusata di Giulio Andreotti. E loro, gli ex diccì resuscitati da un sonno che durava da vent'anni, l'hanno presa alla lettera. E così, vietata la formula da Seconda Repubblica "in bocca al lupo", fra vecchi democristiani si brinda a Enrico Letta con una parola che, per lor cattolici, è una parolaccia: "In culo alla balena". Segue, però, una precisazione dal sapore doroteo: «La balena è di nuovo quella bianca». Eccoli che tornano i democratici cristiani. Dopo decenni di divisioni, risse pubbliche e cene private, proprio quando pareva che fossero scomparsi del tutto. Invece sono già di nuovo bardati di eleganti perifrasi bipartisan per seppellire l'antiberlusconismo e l'ex comunismo, e già tronfi di una certa aneddotica da tempi andati.
Quella del "moriremo democristiani", per dirne una, che ormai ripetono un po' tutti. «Perché la politica si vendica di chi la offende», sentenzia euforico l'ex ministro andreottiano Paolo Cirino Pomicino. Ed è subito tripudio di citazioni bibliche ed evangeliche, da Davide contro Golia, fino a un Carlo Donat Cattin finito in bocca a Giorgia Meloni su suggerimento di un altro gigante, Guido Crosetto, ex giovane democristiano: «Se tutti ti danno ragione vuol dire che o sei Gesù o ti stanno prendendo in giro».
Certo è che nel giorno di Letta Enrico, eterno enfant prodige del Pd diventato a 46 anni finalmente grande, dopo aver strappato a 32 anni il primato di ministro più giovane della Repubblica proprio al Divo Giulio, a brindare non sono né i berluscones della prima ora, quelli con la cravatta regimental e gli slogan sui mangiatori di bambini, né i resti del Pd veltroniano, quello del "yes, we can", che sognava il nuovo Obama in salsa tricolore. Non serve sfogliare chissà quale enciclopedia politica, né puntare il microscopio fra le pieghe dei curriculum ministeriali. Basta guardarlo a occhio nudo, quel governo formato in poche ore, «dove la croce la portano Letta e Alfano, due che non a caso vengono dalla Dc, e che dovranno vedersela con Berlusconi e con il Pd, mentre lo scudo lo fa il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano», dice una vecchia volpe forlaniana.
Fatto sta che quel simbolo con lo scudocrociato improvvisamente si scorge ovunque. Fin dai segni premonitori. Primo fra tutti, il Pd parricida che, ubriacato dall'idea di un governo di sinistra guidato da Pier Luigi Bersani, si è infranto profanando proprio due totem ex Dc: prima Franco Marini e poi Romano Prodi, caduti a pochi passi dal Quirinale. Vittime democristiane nella sostanza, ma anche nella forma, bersaglio di franchi tiratori come Arnaldo Forlani impallinato dalle correnti alla vigilia di Tangentopoli.
Nemesi. Vendetta. Rigenerazione. Comincia così il governo di Enrico Letta, che si paragona al re biblico fondatore di una nuova stirpe. E quegli spari davanti a palazzo Chigi in pieno giuramento risuonano come un estremo monito, che fa eco con la biografia del nuovo premier. Lui che a dodici anni uscì da scuola tenendo la mano a papà Giorgio e andò in pellegrinaggio a via Fani, dove Aldo Moro era stato rapito e dove era stata sterminata la sua scorta. «In me», disse, «nacque lì il primo sentimento politico». Lui che a sedici anni, studente dai voti alti del Galileo Galilei, si iscrive alla Dc e batte i comunisti alle elezioni scolastiche. Lui che ha guidato i Giovani democristiani europei fino al 1995. E che è stato vicesegretario del Partito Popolare Italiano fino al 1998. E ancora lui, pupillo di Nino Andreatta, vate democristiano e padre dell'Ulivo, che all'inizio degli anni Novanta lo volle con sé al ministero degli Esteri, per poi lasciargli l'eredità della sua fondazione politica, quell'Arel che Letta guida ancora. Assieme ad altri think tank dal sapore più pop, come VeDrò, l'associazione bipartisan che si riunisce fra i monti del Trentino, fra giochi, dibattiti, musica e partite di subbuteo. E che, coincidenza ma non proprio, Letta coordina al fianco del suo nuovo vicepremier, Angelino Alfano, scudiero del Cavaliere, ma all'epoca della Dc già ben saldo a bordo dell'Achille Lauro, la nave su cui i giovani democristiani, nel lontano 1986, fecero la "Crociera della pace" dopo l'uccisione dell'ebreo Leon Klinghofer da parte dei terroristi palestinesi.
Difficile immaginarci Bersani o D'Alema. Difficile pensare a quel duo Letta-Alfano come i futuri leader della sinistra e della destra antagoniste. Angelino, classe '70, infatti, pareva avere più quid allora di quanto gliene riconosca re Silvio. Se si pensa che a sedici anni suonati lasciò il papà vicesindaco di Agrigento e partì solitario alla volta di Palermo, proprio per unirsi ai giovani diccì in navigazione per rilanciare il loro movimento. Come a dire che c'è un filo bianco nel passato recente che tiene uniti il premier e il suo vice senza nemmeno bisogno di passare per zio Gianni, ombra di Silvio Berlusconi e presentissimo, pur nella sua evanescenza, durante la serrata trattativa per il governo Pd-Pdl. Perché la famiglia Letta è un clan: ognuno sul suo binario, ma tutti uniti. E, come le grandi dinastie, ogni anno si riuniscono ancora, a Pisa, oppure ad Avezzano, a ricordare i tempi andati. Ci sono Enrico e Gianni, con la sorella Maria Teresa, vicepresidente della Croce rossa. C'è sempre zio Cesare e c'è papà Giorgio. E una nidiata di nipotini: i futuri Letta.
Al governo con lui, Enrico ha voluto un altro ex pupillo centrista. Quel Dario Franceschini, 53 anni, che ai tempi della Dc era chiamato "il giovane Trotzkij", per una certa velleità rivoluzionaria che un volpone come Ciriaco De Mita trasformò in epitaffio: «Dario era un cristiano sociale e, in quanto tale, nel partito si comportava come un doroteo». A quei tempi Letta era chiamato, invece, "il secchione" per via degli occhiali, della mania per i libri, della passione per le lingue. E quei due, negli anni, di governo in governo e di soprannome in soprannome, hanno fatto strada senza mai pestarsi davvero i piedi. Finché, da vicesegretari di Marini al Ppi, Dario è diventato "l'inutile" e Letta "il dannoso", sempre per lingua di quel De Mita che vedeva la Balena bianca ormai spiaggiata sulla riva della Seconda Repubblica. Inutile non lo è stato, però, il figlio di partigiano bianco che fu fra i fondatori della Margherita, poi vice di Walter Veltroni e addirittura segretario pro-tempore del Pd, quando si respirò un refolo d'aria centrista, fino alle primarie dell'ottobre 2009 che incoronarono Pier Luigi Bersani. Ed è dalle dimissioni dello smacchiatore di giaguari che ricomincia la scalata di Franceschini, che sembrava franata dopo l'elezione di Laura Boldrini alla presidenza della Camera che doveva essere sua. Ma lui, già dagli anni Ottanta, quando era un giovane dirigente diccì, l'aveva vaticinato: «Nella Dc a trent'anni sei da asilo infantile, a quaranta sei un presuntuoso, a cinquanta puoi cominciare a pensare al futuro, a sessanta sei un segnale di rinnovamento».
Massima rispettata con sette anni di anticipo, proprio come il coetaneo e compagno fra le teste di serie del governo, Graziano Delrio, voluto da Letta e caro allo stesso Napolitano. Cattolico, dossettiano doc, nove figli, ex militante del Ppi, concittadino e seguace di Pierluigi Castagnetti, prodiano prima e renziano poi, è lui, il capo dei sindaci italiani, quello che alla radio spara serafico contro la nomenklatura ex Pci: «Se l'Inghilterra ha fatto a meno di Tony Blair e la Germania di Helmut Kohl, forse l'Italia potrebbe fare a meno di D'Alema, no?». E così è stato. Nel governo Letta ci sono i quarantenni e nel partito alberga l'anima di Matteo Renzi, democristiano figlio di democristiani, popolare di indole, e in guerra con il Pd per una leadership capace di sfondare anche a destra. Eppure a chi già parla di nuova Dc, ribatte Clemente Mastella, custode ancora geloso dell'ortodossia bianca: «Sì, nel governo ci sono pure alcuni che hanno assaggiato un po' di latte dalla mammella della Balena. Può pure darsi che a distanza di tempo questo latte abbia dato risultati. Ma è da vedere».
Fra padri e figli di tanta madre, nella famiglia del nuovo esecutivo c'è spazio pure per un nipotino putativo. Già. Quel Gaetano Quagliariello, 63 anni, napoletano, ex radicale folgorato da papà Silvio fin dal 1994, che è stato prima una "colomba", poi il "teocon" immortalato a reti unificate mentre grida «assassini!» in Senato dopo la morte di Eluana Englaro. Non gli bastasse il curriculum di "tory", Quagliariello può sfoggiare pure un nonno acquisito (visto che il padre rimase orfano e fu allevato da uno zio), che di nome faceva Gaetano come lui, e che fu senatore nella prima legislatura repubblicana proprio sui banchi della Dc, gli stessi dove Gaetano junior ha costruito la sua carriera fino a essere nominato fra i dieci saggi da Napolitano (...a proposito... dove possiamo trovare un sunto delle Grandi Proposte che ci hanno lasciato i Dieci Saggi? NdR)
Nella nouvelle vague democristiana non può mancare Cl. Mario Mauro e Maurizio Lupi, già dirette emanazioni di un Celeste Formigoni divenuto troppo ingombrante, e ora da lui emancipatisi (ma senza scomuniche), ne hanno seguito nel tempo i passi, prima con lui nella Dc, poi nel Ppi, quindi in Forza Italia e nel Pdl. Il neoministro alle Infrastrutture Lupi, gran organizzatore di trasferte bipartisan - dai pellegrinaggi a Gerusalemme alle maratone di New York - si vanta di essere stato, in pieno ciclone Tangentopoli, «l'ultimo democristiano eletto a Milano» (era il 1993); da assessore all'Urbanistica, esuberante e gaffeur, osò domandare a Sua maestà britannica: «Do you like Piazza Scala?». Ciellino del genere "fautore del proprio destino", da ex "sfigato degli Olmi", nativo della periferia milanese di Baggio, ha festeggiato i cinquant'anni in Vaticano, nel cortile dell'Università Lateranense, con tanto di candeline: tutto organizzato da monsignor Rino Fisichella, già cappellano della Camera.
Ancora più di Lupi si occupa del futuro dei moderati italiani Mario Mauro, considerato pupillo del cardinale meneghino Angelo Scola. Il suo nome è balzato agli onori delle cronache dacché Mauro ha cominciato a prendere le distanze dal Pdl in autunno, per poi uscirne e aderire a Scelta Civica. Ma erano anni che nei corridoi chi sa mormorava il suo nome, mentre lui s'adoperava ai vertici del Parlamento europeo. La sua storia, del resto, è segnata dai maestri: professore di filosofia al liceo era il padre costituente e parlamentare Dc Gerardo De Caro; all'Università Cattolica, per regalo di laurea, ebbe da don Giussani uno stage al Consiglio d'Europa. Da ragazzino grassoccio, era di quelli che portano il pallone, per essere sicuri di giocare. E in squadra, stavolta nel governo, ci trova pure Gianpiero D'Alia, uno che la "democristitudine" ce l'ha nel sangue, essendo figlio di Salvatore D'Alia da Lipari, uomo di spicco della Dc siciliana degli anni Sessanta, poi parlamentare Dc e Ccd. Il padre, scomparso un mese fa, gli ha letteralmente lasciato, oltreché il mestiere, il posto: nel 2001 il giovane Gianpiero entrò in sostituzione del genitore nelle file dell'Udc. E sarà pur vero che l'arte politica non si tramanda col Dna - come diceva Platone - ma forse la democristianità sì: e D'Alia il giovane non è mai stato un novellino. Sottosegretario con Berlusconi, bravissimo a ricordarsi di tutto e di tutti come i democristiani di una volta, è riuscito a sopravvivere alla mareggiata che ha travolto l'Udc. Fino a diventare, lui fedelissimo di Casini, la finestra da cui il suo capo Pier rientra in gioco dopo essere uscito dalla porta delle urne.
E infine la giovane Nunzia Di Girolamo. Classe '75, non ha in curriculum la democristianità politicamente attiva, eppure tanta ne ha respirata nella natìa Benevento. Nei cinque anni che ci ha messo a realizzare l'obiettivo (dichiarato nel 2009) di diventare, da neoparlamentare, ministro dell'Agricoltura, ha dimostrato una capacità di navigazione tra gli scogli degna di uno squaletto di piazza del Gesù. Partita col soprannome di "Carfagna del Sannio" e col bigliettino devastante («Nunzia e Gabri, state molto bene insieme») che le scrisse il Cavaliere nel giorno del primo voto di fiducia, in cinque anni si è: sfilata dall'immaginario che la voleva carina e berlusconina, infilata nell'associazione VeDrò di Letta, sposata con il lettiano Francesco Boccia (oggi segno premonitore dell'imminente inciucio), distinta nella battaglia per la libertà di coscienza nel voto su Marco Milanese, e infine eretta sull'onda del nuovo dopo un rapido avvicinamento all'Alfano in ascesa. Altro che "Carfagna del Sannio": lei, spiegò, a Palazzo Grazioli ci era andata per parlare con Berlusconi di Padre Pio. Un argomento che, con l'aria democristiana che tira, torna ad essere un'ottima scusa.