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Orozco El Embalsamador (死化粧師オロスコ, Orozco The Embalmer)
Creato il 21 gennaio 2013 da Makoto @makotosterOrozco El Embalsamador (死化粧師オロスコ, Orozco The Embalmer). Regia: Tsurisaki Kiyotaka. Fotografia: Tsurisaki Kiyotaka con la collaborazione di Alvaro Fernandez Bonilla; Montaggio: Tsurisaki Kiyotaka, Saegusa Susumu. Produzione: Orozco Productions, V&R Planning. Origine: Giappone, Colombia. 2001. Durata: 91’ Prima proiezione pubblica: Canada, 1 settembre 2001.
Links: Sito ufficiale (in inglese)Punteggio ★★★★1/2
Orozco el Embalsamador è un documentario - o se preferite uno «shockumentary» - realizzato da Tsurisaki Kiyotaka. Nato nel 1966, Tsurisaki si è “formato” come regista di video porno S&M, che - secondo le sue stesse parole - erano ambientati durante la guerra del Pacifico e vertevano sulle torture della Gestapo giapponese nei confronti di giovani studentesse spie (www.bizarremag.com). Nel 1994, la carriera del regista ha una svolta quando il direttore della sua compagnia di video gli propone di fare delle fotografie di cadaveri da inserire in una rivista da questi edita. Senza migliori possibilità professionali, Tsuriaki accetta e dal momento che la cosa non sarebbe stata possibile in Giappone, va a scattare le sue foto in Tailandia. Sino a quel momento Tsuriaki non aveva alcuna esperienza nell’ambito della fotografia, ma da allora questa divenne la sua principale attività Oggi Tsuriaki è un noto fotografo che vanta diverse esposizioni - a Tokyo e Parigi - e diversi libri fotografici al suo attivo (fra cui Relevations e Requiem De La Rue Morgue) che vertono tutti su uno stesso tema: il corpo dei morti. Tsuriaki - autore anche di una serie di short raccolti sotto il titolo di Junk Films (2007) - ha fotografato i suoi cadaveri - spesso di donne e uomini assassinati, suicidi o vittime di incidenti statali - in alcune delle zone più pericolose del mondo, come certe aree della Thailandia, del Messico, del Brasile, della Russia, della Palestina e della Colombia. Proprio a Bogotá, nel quartiere di «El Cartucho», è girato Orozco, che si costituisce in parte di riprese di strada dello stesso quartiere - particolarmente drammatiche e toccanti -, dove vivono diseredati di ogni specie, vittime e colpevoli dello spaccio di droghe e di violenti regolamenti di conti, le cui drammatiche conseguenti - i corpi insanguinati sull’asfalto - sono puntualmente filmati da Tsurisaki. Ma la parte più cospicua di Orozco è quella dedicata all’uomo che dà il nome allo stesso film, un imbalsamatore di cadaveri, il cui compito è quello di preservare i corpi dei defunti, evitarne la putrefazione, prima del loro funerale. Orozco si costituisce in buona parte di atroci riprese del macabro lavoro del suo protagonista. I corpi nudi dei cadaveri - con i genitali ben in vista -, stesi su griglie metalliche in grado di far fluire il sangue, sono aperti sul petto - gli strumenti che l’uomo usa non sono costosi strumenti da chirurgo ma arnesi da macellaio -, le interiora vengono momentaneamente asportate, la cavità del torace disinfettata con della formalina, prima di venire nuovamente riempita delle sue interiora e da degli stracci capaci di mantenerne esteriormente la forma. A questo punto con un grosso ago e uno spago, il ventre e il petto del cadavere sono ricuciti. Dopo non rimane che mettere altri stracci nella cavità orale, del cotone nelle narici, vestire il cadavere e truccarne il volto, prima di riporre il corpo nella bara - spesso con l’aiuto di cinghie di cuoio, specie per i cadaveri più pesanti - pronto così per il saluto ultimo. In una sorta di loop infinito, il rituale è mostrato più volte e se i corpi cambiano - con in comune solo quella “deforme sfattezza” che l’età e la miseria congiunte provocano - i gesti di Orozco sono sempre gli stessi.
Si sarà capito che Orozco non è un film per tutti e che un certo cinico sensazionalismo sia continuamente dietro l’angolo. Ma quel che è certo è che il documentario non ha nulla a che vedere col falso scandalo del cinema splatter, né con la patinata ipocrisia di Departures (Okuribito, Takita Yojirō, 2008). È un film che pone il problema del rappresentabile, di che cosa il cinema è o non è autorizzato a mostrarci, senza che ovviamente abbia dubbi sulla strada da intraprendere. Diciamo anche che raramente l’assunto cocteauiano secondo cui il cinema è la «morte al lavoro», ha trovato in una certa misura una così forte conferma - Orozco, l’uomo, è in fin dei conti davvero la «morte al lavoro». Credo, infine, che il film anche in tutta la sua probabile “morbosità”, sia un film che induca riflettere sulla miseria del nostro corpo, sul suo terribile destino - imbalsamazione o meno -, su ciò che esso è costretto a essere in molte realtà del nostro mondo - viva la “pornografia della miseria” quando questa ci ricorda certe verità - . Da questo punto di vista Orozco è un film sullo spirito - l’unico che ci può salvare - che va visto come fosse un’opera di Bergman o di Dreyer. [Dario Tomasi]
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