Ultimamente si sente parlare molto della necessità di tornare alle materie umanistiche, dell’importanza di quest’ultime in un contesto, quello della crisi finanziaria, in cui la legge fredda e spietata del profitto ha invaso il mondo del lavoro, distruggendolo e portandolo in taluni casi a drammatiche cadute.
Mi ha molto colpito per questo motivo un articolo, “A proposito di ‘Maestri e Amici’ di Alfredo Stussi”, apparso sul supplemento Domenica del Sole 24 ore il 9 ottobre scorso.
“Ho l’impressione che, a parte quelli che ci insegnano o ci studiano, pochi abbiano l’idea di ciò che nelle facoltà umanistiche effettivamente s’insegna e si studia; e che chi non sa ne pensi male piuttosto che bene”, scrive Claudio Giunta, l’autore dell’articolo.
Perché mi ha colpito? Forse per la mia formazione umanistica e la mia volontà di difesa della stessa. Forse perché nelle pieghe di questo articolo e nel libro di Stussi, che naturalmente ho comprato, ho trovato spunti di riflessione interessanti che esulano dal merito in sé (gli studi linguistici o letterari o filologici o storici), ma che possono essere d’insegnamento anche per il loro approccio metodologico.
Perché se dall’esterno si pensa spesso agli umanisti come a persone che celebrano una “simpatica” vacanza dalla vita, in realtà non è così. E il libro, ricordando amici (storici, filologi, linguisti ..), ci mostra il lato autentico dell’autentico lavoro umanista. Mostra come dietro il lavoro di costoro vi sia una rigorosa disciplina, vi sia una perfetta conoscenza tecnica, vi sia una consapevolezza profonda sul metodo e, infine, vi sia anche una grande apertura alla dialettica, allo scambio, al confronto.
Io sono convinta che pur lavorando in un dato settore, non si debba mai togliersi la possibilità di esplorare altri ambiti lavorativi, trovo, cioè, che le pagine di Stussi facciano emergere, oltre che ritratti di personaggi senza dubbio straordinari, anche motivi di riflessione, e perché no, di emulazione per ambiti lavorativi completamente diversi.
In particolare il ritratto di Augusto Campana, professore alla Normale di Pisa, mi è piaciuto. Egli, infatti, amava tenere seminari in cui ognuno contava “per il contributo che riusciva a portare e non c’era a priori una distinzione gerarchica tra gli studenti”. Stiamo parlando della fine degli anni 50, quando certamente il concetto di “know-how-sharing” non era di moda come oggi. Ma proprio da un approccio di questo tipo si può e si deve imparare. Anche il management ha bisogno di dialettica e di confronti a prescindere dalla posizione gerarchica, nel rispetto della persona. Ma ha anche bisogno di concretezza. E, soprattutto se si parla di management degli eventi, in cui un palcoscenico reale o metaforico viene allestito, anche il management ha bisogno di allontanare la fuffa e di concentrarsi onestamente sul cuore delle cose.
E allora, per fare una sintesi, le lezioni che mi sento di interiorizzare dal ricordo di illustri umanisti sono semplici. Ecco qui alcuni rapidi e sintetici spunti
- Conoscenza degli strumenti
- Metodo chiaro e finalizzato ad un risultato
- Concentrazione sulla materia (core competence) senza bisogno di aggiungere orpelli estetizzanti
- Confronto e scambio, apertura e ascolto, in sintesi: dialettica autentica
Ovviamente detto cosi pare tutto facile, ma di fatto, la responsabilità di chi guida il gruppo di lavoro è chiara. E di nuovo il professor Campana mi suggerisce una linea che mi pare interessante sposare: era, scrive Stussi, un “mirabile direttore d’orchestra (…): infatti anche le opinioni azzardate non venivano seccamente respinte, ma discusse con attenzione, cercando di estrarre tutto l’utile possibile.”
E’ questo “tutto l’utile possibile” che mi piace. Come a dire che c’è sempre la possibilità di conoscere o mettere in atto un’idea nuova, un nuovo metodo, una nuova esperienza, anche professionale. Condizione fondamentale è sapere dove si vuole andare e pur sapendolo ascoltare e ascoltando migliorare.
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