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Orsi, spose e carnevali

Creato il 02 maggio 2013 da Paolo Ferruccio Cuniberti @paolocuniberti

CatturaE’ in uscita al Salone del Libro di Torino 2013 la raccolta dei miei articoli e saggi di etnologia del Piemonte 1996-2012 per l’editore Araba Fenice.

Di seguito anticipo la Prefazione.

I sei saggi che appaiono in questo volume sono stati scritti in un arco di tempo di sedici anni, dal 1996 al 2011, talvolta pensati molto prima, ma pubblicati parecchio dopo, oppure talvolta solo sintetizzati, o addirittura, in un caso, rimasti inediti. La mia collocazione non accademica e defilata rispetto ai circoli culturali “ufficiali” non ha sicuramente giovato a una conoscenza più diffusa dei miei lavori. Questa pubblicazione raccoglie perciò tutta la mia – peraltro assai contenuta – attività  svolta negli anni di “etnologo autodidatta” (si definiva così anche Claude Levi-Strauss, ma io sono un nano sulle spalle di un gigante), nella sua forma integrale e originale. I testi che seguono hanno pertanto subito una revisione leggera, con minime correzioni,  senza le integrazioni e gli aggiornamenti metodologici e bibliografici che oggi agli addetti potrebbero apparire necessari.  Numerosi studi, convegni e pubblicazioni su questi argomenti sono apparsi negli ultimi anni, ma, e lo vorrei dire senza peccare di presunzione, ho spesso trovato confermate (non obsolete, e semmai consolidate e arricchite) le idee centrali da me elaborate negli anni di lavoro solitario. Quanto al procedimento di analisi da me utilizzato, potrei definirlo una sorta di evoluzione del metodo storico-comparativo rielaborato alla luce dei portati dell’antropologia strutturale, e credo di averne spiegato le ragioni nelle premesse del saggio Le spose di carnevale a cui rinvio.

Al di là delle date di pubblicazione dei testi di questa raccolta, i miei interessi antropologici, che hanno viaggiato in parallelo con molte altre passioni, la narrativa in primo luogo, hanno radici profonde. Forse è anche un “vizio” regionale, pensando al Fenoglio della Malora, al Pavese della Luna e i falò, al Nuto Revelli del Mondo dei vinti. Credo di appartenere a quella schiera di “pendolari sociali”, sospesi tra culture urbane e cultura della campagna, i quali, coscienti da tempo del proprio sradicamento, ma non rassegnati, si guardano di tanto in tanto alle spalle per raccogliere qualche frammento delle proprie origini, della propria storia, di quel “tempo dei sogni” che ci ha lasciato un’impronta nell’anima.

La mia famiglia è originaria di Govone, nei pressi di Alba, luogo dove ho trascorso deliziosi e formativi periodi dell’infanzia e della prima giovinezza. La profonda e intima conoscenza di quei luoghi e le esperienze giovanili, mi hanno condotto ad esplorare, dopo la concretezza del vissuto etnico locale, i territori più vasti dell’antropologia culturale.

Già nei primi anni ’70, quando quasi nessuno intorno a noi ragazzi sembrava conservare memoria, o taceva quasi con vergogna, delle proprie tradizioni, e ben prima che riesplodessero il folk-revival urbano e le kermesse di Arci-Langhe, ma anche, ad esempio che, a sole due colline di distanza, si sentisse parlare della nascita del Gruppo Spontaneo di Magliano Alfieri e delle prime incursioni di universitari condotti da Gian Luigi Bravo e Gian Renzo Morteo, con un gruppo di giovani amici si era riproposto in modo abbastanza fortuito un canté i’oeuv per le borgate di Govone (rigorosamente finalizzato a finanziare la merenda di pasquetta), recuperando il testo della lezione govonese grazie alla buona memoria di mio padre e con l’istruzione musicale del direttore della polifonica locale Teresio Cantamessa. L’evento riscosse inaspettatamente un tale apprezzamento da parte della gente, dimostrato dal vivo piacere con cui si veniva accolti e dalle proteste da parte di chi si era trascurato di visitare, che ne fummo molto sorpresi, ma non comprendemmo lì per lì di avere lasciato un seme. Infatti, se negli anni successivi qualche gruppo ha nuovamente imbracciato una chitarra e soffiato in un clarino “cantando le uova” per le borgate di Govone, un po’ è stato anche merito nostro. Ciò testimonia come la mia sensibilità sull’argomento provenga da lontano e come certi eventi, magari rimossi per qualche periodo della vita, tendano a riaffiorare come fenomeni carsici nelle comunità come nelle persone.

Un altro episodio ha avuto un seguito, restandomi impresso e portandomi dopo alcuni decenni a scriverne diffusamente nel primo dei saggi che qui si presentano. La genesi della Maschera dell’orso si può far risalire a quello stesso periodo di molti anni fa, quando, ancora ragazzo, ho avuto per la prima volta occasione di osservare a Govone una delle ultime uscite di una insolita maschera carnevalesca: un uomo ricoperto d’una pelle d’orso condotto da un “domatore” in livrea. Più tardi, quando si sono venuti precisando i miei interessi etnologici, ho potuto approfondire la conoscenza dell’usanza attraverso letture e osservazioni “sul campo” e dare conto delle riflessioni stimolate da tali studi,  tracciando un percorso ideale che indaga in senso diacronico le origini storico-ambientali (e forse preistoriche) della maschera, e in senso sincronico le sue interpretazioni antropologiche. Oggi molti studi si sono aggiunti su questo tema.

Occuparsi sistematicamente di ricerca sul campo non è facile, richiede disponibilità di tempo, contatti a vari livelli, possibilità di viaggiare per operare confronti, e anche mezzi economici. Vi sono feste, come a Bagolino (BS), che raggiungono il culmine solo in alcuni giorni lavorativi della settimana, il lunedì e il martedì, sebbene la tendenza generale porti a spostare il calendario degli eventi in coincidenza con le domeniche e altre festività nazionali; talvolta, come la Baìo di Sampeyre, occorre attendere cinque anni tra una rappresentazione e l’altra; oppure inerpicarsi per valli alpine in pieno inverno tra tormente di neve per vedere apparire un gruppo di “landzette” valdostane con il loro orso al seguito (ricordo la macchina fotografica inceppata per il gelo terribile). Eppure ogni volta riempie di stupore ed entusiasmo assistere allo stravolgimento della realtà quotidiana operato da tutti gli eventi rituali della cultura popolare e cogliere in tutto ciò un antichissimo substrato comune di cui, come ha scritto Franco Castelli in una delle mie rare corrispondenze, “noi oggi riusciamo a individuare solo i frammenti, come relitti di un grande naufragio”.

Ripartire da qui, da questi relitti, sarebbe ancora possibile? La caduta verticale del mondo popolare, e della civiltà contadina in particolare, ha accompagnato una enorme dispersione dei valori fondanti della comunità umana e dell’individuo stesso: la solidarietà, l’ancoraggio forte alla memoria come parte del patrimonio culturale, la volontà di ricercare il bene comune, il recupero periodico di momenti di sana follia e divertita trasgressione delle regole come sfogo sociale alle difficoltà del vivere.

Le prospettive sugli anni che abbiamo davanti non offrono indicazioni rassicuranti per la salvaguardia del passato come lo abbiamo conosciuto, ed è difficile fare previsioni. Globalizzazione economica e culturale, reti di informazione, invasività dei mass-media dalle cucine alle aule parlamentari, devastazione del territorio e dei beni culturali, pressione  delle popolazioni dei paesi emergenti che non accettano più la loro condizione di subalternità, stanno portando l’umanità, e l’Occidente in special modo, ad affrontare nuove e difficili sfide. Osservare la realtà con lucidità, senza filtri e senza pregiudizi, resta ancora un impegno intellettuale stimolante che va colto senza timore o impossibili nostalgie, ma senza dimenticare.



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