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Orticoltura nel mondo antico
Largamente praticata nel mondo antico, l’orticoltura si distingue sotto vari aspetti dalle coltivazioni cerealicole. In primo luogo, per le più limitate superfici lavorate, che in genere formavano le dipendenze viciniori dell’azienda agricola; quindi, per la maggiore richiesta di irrigazione (con acque fluenti o di pozzo/cisterna) e di lavorazione, a zappa e a mano, e non ad aratro (zappatura, diserbo); ancora, per la necessità di una proficua concimazione (con cenere, sterco d’asino, guano colombino). Infine, le coltivazioni orticole non richiedevano riposi biennali (maggese), bastando a
mantenere la fertilità del suolo l’alternanza delle colture sulle singole parcelle. Gli antichi del resto conoscevano e sfruttavano le potenzialità fertilizzatrici delle leguminose, che consentivano una rotazione delle colture anche su campi aperti. Le specie messe a coltura vanno distinte in tre grandi categorie: (a) leguminose, (b) ortaggi (verdure); (c) radici e tuberi.
(a) leguminose
Quanto alle leguminose (lat. legumina), il cui apporto nutritivo era di grande rilievo, le specie coltivate nell’antichità erano: ceci, fave, lenticchie, piselli, lupini, oltre ad un’unica specie di fagioli, i fagioli dell’occhio (Vigna unguicolata). Ceci e fave, oltre che nell’orto, potevano venir coltivati in campi aperti, dato il loro larghissimo impiego (in Italia queste leguminose potevano essere lavorate con aratura a traino bovino); i lupini, diffusissimi, e oggi noti forse solo dalle pagine dei Malavoglia, rappresentavano un alimento “povero” e scarsamente apprezzato.
(b) ortaggi
Gli ortaggi verdi (lat. olera) comprendevano un ricco assortimento di specie, fra cui si segnalavano le verdure a foglia (lattughe, cavoli, broccoli, bietole), a stelo (asparagi, sedani, cardi) e a frutto (cetrioli, zucche).
© radici e tuberi
Fra le radici e tuberi, si aveva un largo uso di cipolle, porri, aglio, pastinache, rafani, rape (particolarmente apprezzate a Roma), ravanelli. Si deve naturalmente tenere presente che non esiste una perfetta sovrapponibilità fra le specie coltivate nel mondo antico e quelle in uso attualmente, dati i processi di differenziazione e selezione nel frattempo intervenuti, che possono aver reso le essenze attuali anche molto diverse da quelle dell’antichità.
Accanto alla coltivazione orticola, varietà selvatiche delle specie coltivate (bulbi come gli odierni lampasciuni), e specie non coltivate (asfodelo, scorzonera), erano correntemente oggetto di raccolta.
Presso le classi più povere e i più piccoli proprietari, l’orticoltura rimpiazzava le colture ceralicole: un appezzamento di 1/2 ettari non poteva infatti sostenere l’allevamento di un bove per l’aratura. I legumi costituivano d’altronde una risorsa di grande valore proteico e calorico, tale da rimpiazzare almeno in parte i cereali. Il vantaggio dell’orto rispetto al campo era anche quello dell’immediata disponibilità, distribuita lungo il decorso delle stagioni, di prodotti che non richiedevano lavorazioni
intermedie quali trebbiatura, macinatura per i cereali, ovvero premitura, torchiatura ecc. per l’olio, ed erano quindi pronti al consumo immediato. I prodotti dell’orto esigevano al massimo una semplice bollitura o tostatura, e nel caso di insalate, cipolle e cetrioli, neppure questa.
Nel territorio dell’Attica gli orti costituivano, costretti com’erano entro limiti imposti dalla disponibilità d’acqua per l’irrigazione, una caratteristica rilevante del paesaggio suburbano. A Roma, a partire dal I secolo d. C., si estese intorno all’urbe, per un raggio di alcuni km, una “cintura” ortofrutticola formata da piccoli appezzamenti di circa 1 ha, che rifornivano la capitale di legumi, cavoli, lattughe, rape – vegetali che costituivano il normale companatico della plebe.
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