Oscar Wilde – Il critico come artista 2

Creato il 15 dicembre 2012 da Marvigar4

GILBERT. È difficile non essere ingiusti con ciò che si ama. Ma torniamo al punto in questione. Cos’è quello che hai detto?

ERNEST. Semplicemente questo: che nei giorni migliori dell’Arte non c’erano critici d’Arte.

GILBERT. Mi sembra d’averla già sentita questa osservazione, Ernest. Possiede tutta la vitalità dell’errore e tutto il tedio di un vecchio amico.

ERNEST. È vero. Sì: non occorre che tu scuota la testa in quel modo petulante. È proprio vero. Nei giorni migliori dell’Arte non c’erano critici d’Arte. Lo scultore sbozzava dal blocco di marmo il grande Hermes dalla bianche membra che vi dormiva dentro. I lucidatori e i doratori di immagini davano tono e struttura alla statua, e il mondo, nel vederla, l’adorava attonito. Egli versava il bronzo rilucente nello stampo fatto di sabbia, e il fiume di rosso metallo si raffreddava nobili curve e prendeva l’impronta del corpo di un dio. Con smalto o gemme luminose donava vista agli occhi senza vista. I riccioli simili a al giacinto s’increspavano sotto il suo bulino. E quando, in qualche buio tempio affrescato, o soleggiato portico a colonne, il figlio di Leto stava eretto sul suo piedistallo, quelli che passavano, ́αβρ̃ως βαίνοντες δία λαμπροτάτου αιθέρος [1], divenivano consci di una nuova influenza che aveva attraversato le loro vite, e sognanti, o con una sensazione di strana e stimolante gioia, andavano nelle loro case o al lavoro quotidiano, o vagavano, forse, uscendo dalle porte della città verso quel prato frequentato da ninfe dove il giovane Fedro bagnava i suoi piedi, e, lì sdraiati sull’erba soffice, sotto gli alti platani che sussurrano nel vento e il fiorito Agnus castus, cominciavano a pensare alla meraviglia della bellezza, e s’ammutolivano con insolita soggezione. In quei giorni l’artista era libero. Dalla vallata del fiume prendeva la fine creta fra le sue dita, e con un piccolo strumento di legno o d’osso, la modellava in forme così squisite che la gente le donava ai morti come giocattoli, e noi li ritroviamo ancora nei sepolcri polverosi sul giallo colle nei pressi di Tanagra, con l’oro pallido e l’evanescente cremisi che indugia ancora su capelli e labbra e vestito. Su di un muro di calce fresca, macchiato di minio brillante o mischiato a latte e zafferano, egli ritraeva una che percorreva con piedi stanchi i purpurei, adorni di bianche stelle campi di asfodeli, una «nelle cui palpebre giace tutta la guerra di Troia», Polissena, la figlia di Priamo; o raffigurava Odisseo, il saggio e avveduto, legato da stretti cordami all’albero maestro, per poter udire senza danno il canto delle Sirene, o errante presso il fiume chiaro dell’Acheronte, dove i fantasmi di pesci guizzavano sul letto ciottoloso; o mostrava il Persiano in pantaloni e mitria mentre fuggiva davanti ai greci a Maratona, o le galee che cozzavano con i loro rostri d’ottone nella piccola baia di Salamina. Disegnava con punta d’argento e carboncino su pergamena e cedro preparato. Su avorio e terracotta color rosa dipingeva con la cera, rendendo la cera fluida con succo di olive, e fissandola con ferri caldi. Pannello e marmo e tela di lino divenivano meravigliosi non appena il suo pennello li sfiorava; e la vita vedendo la sua propria immagine era calma, e non osava parlare. Tutta la vita, invero, era la sua vita, dai mercanti seduti sulla piazza del mercato al pastore coperto con un mantello sdraiato sul colle; dalla ninfa nascosta tra gli allori e dal fauno che suonava il flauto a mezzogiorno, al re che, nella lunga lettiga dalle tende verdi, gli schiavi portavano su spalle lucide d’olio, e facevano vento con ventagli di penne di pavone. Uomini e donne, con gioia o dolore nei loro volti, passavano davanti a lui. Lui li guardava e il loro segreto diventava il suo. Tramite forma e colore egli ricreava un mondo. Anche tutte le arti sottili erano sue. Egli teneva la gemma contro il disco girevole, e l’ametista diveniva il giaciglio di porpora per Adone, e attraverso la venata sardonica Artemide s’affrettava con i suoi segugi. Trasformava l’oro in rose battendolo, e le legava insieme a mo’ di collana o braccialetto. Trasformava l’oro in ghirlande battendolo per l’elmo del conquistatore, o in palme per l’abito tirio, o in maschere funebri per i reali. Sul retro dell’argenteo specchio incideva Teti portata dalle sue Nereidi, o Fedra malata d’amore con la sua balia, o Persefone, stanca del ricordo, mentre metteva papaveri sui suoi capelli. Il vasaio sedeva nel suo stanzino, e, come un fiore dalla ruota silenziosa, il vaso sorgeva tra le sue mani. Decorava la base, lo stelo e le anse con motivi di delicate foglie d’ulivo, o di acanto, o di curve e crestate onde. Poi dipingeva in nero o in rosso efebi in lotta o in corsa: cavalieri armati a tutto punto, con scudi strani araldici e curiose visiere, sporgenti da carri a forma di conchiglia su corsieri impennati: gli dèi seduti al banchetto o nell’atto di compiere miracoli: gli eroi nella loro vittoria o nel loro dolore. Talvolta egli incideva in linee sottili color vermiglio su uno sfondo bianco il languido sposo e la sua sposa, con Eros che librava intorno a loro – un Eros come uno degli angeli di Donatello, una piccola cosa ridente dalle ali auree o azzurre. Sul lato curvo scriveva il nome del suo amico. ΚΑΛΟΣ ΑΛΚΙΒΙΑΔΕΣ [2] o ΚΑΛΟΣ ΧΑΡΜΙΔΕΣ [3] ci narra la storia dei suoi giorni. Di nuovo, sull’orlo dell’ampia coppa piatta dipingeva il cerco che bruca, o il leone mentre riposa, come gli dettava la sua fantasia. Dalla sottile bottiglia di profumo Afrodite rideva alla sua toeletta, e, con le discinte Menadi al suo seguito, Dioniso danzava intorno alla giara del vino con i piedi nudi e tinti di mosto, mentre, come un satiro, il vecchio Sileno si stiracchiava sulle pelli gonfie, o agitava quella magica lancia la cui punta fu ornata con una pigna fregiata, e inghirlandata con edera scura. E nessuno veniva a infastidire l’artista al suo lavoro. Nessuna irresponsabile chiacchiera lo disturbava. Non si curava delle opinioni. Presso l’Ilisso, dice Arnold da qualche parte, non c’era alcun Higginbotham. Presso l’Ilisso, mio caro Gilbert, non esistevano sciocchi congressi d’Arte a portare il provincialismo alle province e a insegnare alla mediocrità in che modo declamare. Presso l’Ilisso, non c’erano noiose riviste sull’Arte, in cui i pedanti ciarlano di ciò che non capiscono. Sulle sponde ricche di giunchi di quel piccolo torrente nessun ridicolo giornalismo stava impettito monopolizzando il seggio del giudice invece di difendersi alla sbarra. I Greci non avevano critica d’Arte.

GILBERT. Ernest, sei proprio delizioso, ma le tue visioni sono terribilmente erronee. Temo che tu abbia ascoltato la conversazione di qualcuno più vecchio di te. È sempre una cosa pericolosa da fare, se le permetterai di degenerare in abitudine la troverai assolutamente fatale a qualsiasi sviluppo intellettuale. Riguardo il giornalismo moderno, non è compito mio difenderlo. Esso giustifica la sua propria esistenza con il grande principio darwiniano della sopravvivenza del più volgare. Io ho solo a che fare con la letteratura.

ERNEST. Ma qual è la differenza tra la letteratura e il giornalismo?

GILBERT. Oh! Il giornalismo è illeggibile e la letteratura non è letta. Tutto qua. Ma riguardo la tua affermazione secondo cui i greci non avevano critici d’Arte, ti assicuro che è del tutto assurda. Sarebbe molto più appropriato dire che i greci furono una nazione di critici d’Arte.

ERNEST. Davvero?

GILBERT. Sì, una nazione di critici d’Arte. Ma non vorrei distruggere il delizioso e irreale ritratto che tu hai tracciato della relazione che legava l’artista ellenico allo spirito intellettuale della sua epoca. Fornire una descrizione accurata di ciò che non è mai accaduto non è soltanto l’occupazione che spetta allo storico, ma il privilegio inalienabile di ogni uomo di talento e di cultura. Io desidero ancor meno parlare in modo dotto. La conversazione dotta è l’affettazione dell’ignorante o la professione del disoccupato mentale. E, riguardo a quella che viene chiamata conversazione edificante, non è altro che il metodo sciocco con il quale l’ancor più sciocco filantropo tenta debolmente di disarmare il giusto rancore delle classi criminali. No: lascia che io ti suoni una folle cosa scarlatta di Dvorak. Le pallide figure sugli arazzi ci stanno sorridendo, e le pesanti palpebre del mio bronzeo Narciso sono abbassate dal sonno. Non stiamo a discutere con solennità. Sono fin troppo conscio del fatto che siamo nati in un’epoca in cui solo le ottusità sono trattate seriamente, e io vivo nel terrore di non essere frainteso. Non degradarmi fino alla posizione di offrirti utili informazioni. L’istruzione è una cosa ammirevole, ma è bene ogni tanto rammentare che niente che sia degno d’esser appreso può essere insegnato. Attraverso le tende della finestra vedo la luna come una moneta d’argento ritagliata. Come api d’oro le stelle le fanno ressa intorno. Il cielo è un duro zaffiro cavo. Usciamo fuori nella notte. Il pensiero è meraviglioso, ma ancor più meravigliosa è l’avventura. Chissà che non potremo incontrare il principe Florizel di Boemia, e ascoltare la bella cubana che ci dice che lei non è ciò che sembra?



[1] Incedendo con delicatezza nell’aria lucente.

[2] Nobile Alcibiade.

[3] Nobile Carmide.



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