Una madre ed il figlioletto, sorridenti, su una foto sbiadita. Ed un ricordo che ossessiona, da quindici anni, Silvano Contin: «È tutto buio, non vedo più nulla. Ho paura, ho paura, aiutami, è buio». La vita di Silvano, marito e padre amorevole, manager affermato, è stata sconvolta, in un attimo, dal criminale Raffaello Beggiato. Da una tragica rapina in gioielleria, che ha portato via la signora Clara Contin ed il piccolo Enrico, gettando, per sempre, Silvano nella cupa disperazione. Un po’ per personale deformazione forense, un po’ perché Massimo Carlotto è un autore che seguo, ho assistito, quasi ipnotizzato, alla riduzione teatrale del romanzo L’oscura immensità della morte, pubblicato nel 2004 ed andato in scena al Teatro Novelli di Rimini. Un po’ per curiosità, perché in Oscura immensità c’è tutto il vissuto dell’Autore; non sarà inutile ricordare che lo stesso Carlotto ha dovuto scontare tredici dei diciotto anni inflittigli per omicidio dalla Corte d’Assise d’Appello di Venezia, prima di ricevere la grazia da Scalfaro. In carcere, come il protagonista della pièce Beggiato, condannato all’ergastolo e rinchiuso, per 15 anni, per il duplice omicidio commesso assieme al complice Siviero, rimasto impunito. Una pena, per il rapinatore, a cui si somma in cella l’ulteriore condanna del cancro ed il disperato bisogno di un perdono che gli conceda, quantomeno, una morte dignitosa; un atto di clemenza da richiedere proprio all’uomo privato degli affetti più grandi: «Egregio Signor Contin, oso rivolgermi a Lei solo perché sono disperato. Ho saputo di essere malato di cancro e di non avere speranza. Ho scontato finora 15 anni di carcere. So che sono pochi per i terribili delitti di cui mi sono macchiato ma la malattia metterà comunque fine alla pena. Le chiedo di perdonarmi e di dare parere favorevole alla grazia. Il mio unico desiderio è di poter morire da uomo libero. Mi rendo conto di chiederLe di avere pietà dell’uomo che Le ha portato via gli affetti più cari, ma Lei è diverso da me ed è certamente capace di un gesto così nobile».
Un’implorazione che non rimane inascoltata, e che viene assecondata da Silvano; un perdono finto, nascosto tra le pieghe di una complessa e sanguinosa vendetta, culminata nell’efferata uccisione del complice di Beggiato. Mi sono più volte interrogato sulla compatibilità tra teatro e noir, e non nascondo che le perplessità sono sempre state forti: come rendere, in poche scene, la tensione narrativa di un noir? Oscura immensità ci riesce magistralmente, con un atto unico di 80 minuti ed una ambientazione essenziale: da un lato la sciatteria ed il vuoto esistenziale della casa di Contin, l’armadio, il frigorifero, il piano cottura, il tavolo e le sedie; dall’altro, il cupo dolore della polverosa cella di Beggiato. Due scene, sovrapposte sul palco ed alternate con un felice meccanismo di luci e retroproiezione. Raramente, come detto, ho assistito ad uno spettacolo così intenso e coinvolgente. Grazie, principalmente, alla regia di Alessandro Gassman, a cui va il merito di irretire gli spettatori ed indagare «tra le pieghe di un’umanità senza speranza, di un limbo esistenziale dove il confine tra il bene ed il male non è perfettamente tracciato», come si legge nelle note di regia; ma soprattutto a due grandissimi attori, Giulio Scarpati e Claudio Casadio.
Al primo, uno dei volti più miti del piccolo schermo, si deve l’inaspettata capacità di alternare la svagatezza di chi ha perso tutto e si è dovuto persino reinventare un’attività da ciabattino («Tra i tacchi da riparare non c’è spazio per mettere su una nuova vita».) alla spietata ferocia del vendicatore («L’assassino, il pezzo di merda, chiede la mia pietà. La pietà era un sentimento che faceva parte di un’altra vita, prima che la morte avvolgesse la mia esistenza. Che il cancro lo stesse uccidendo mi sembrava solo un atto di giustizia. Era giusto che Beggiato soffrisse fino all’ultimo».); a Casadio, già protagonista di Romanzo di una strage di Marco Tullio Giordana, la bravura nel rendere la sguaiata strafottenza del cinico Beggiato, con le sue mille sigarette, le imprecazioni, di regalare un pizzico di colore allo spettacolo, con i suoi esilaranti passi di samba e il miraggio della fuga in Brasile. Un’opera, che rimarca l’eterno dualismo tra perdono e vendetta, sviluppato dall’Autore nel corso di incontri con i familiari delle vittime di omicidio e ne analizza le ossessioni, il refrain con le ultime parole pronunciate dalla vittima e l’incubo ricorrente delle tenebre che risucchiano il proprio caro.
Foto di Gianmarco Chieregato