La chiamiamo ‘oscura’ perché non si vede, ma ‘trasparente’ o ‘invisibile’ sarebbero aggettivi più corretti. Ancor più precisa sarebbe l’etichetta “materia non interagente”, a sottolineare come non la si possa né intrappolare né intravedere ad alcuna lunghezza d’onda. Ma comunque la si chiami, la dark matter pone tutta una serie di problemi a oggi irrisolti.
Il primo, ovviamente, è che, pur essendo la forma di materia di gran lunga più diffusa nell’universo (o almeno così ci garantiscono fisici e cosmologi), nessuno è ancora riuscito ad acchiapparla. Ce ne sono però parecchi altri, di problemi. Uno particolarmente imbarazzante è che, se il modello CDM (dalle iniziali di cold dark matter, quello che attualmente raccoglie più consenso fra gli scienziati) fosse corretto, allora la nostra galassia, la Via Lattea, dovrebbe essere attorniata da una miriade di piccole galassie satelliti. Questo perché nemmeno l’inafferrabile dark matter può ignorare la gravità, anzi: è proprio grazie all’attrazione gravitazionale da essa esercitata su stelle e galassie che gli astrofisici ne hanno indovinato la presenza, fino addirittura a tracciarne mappe di distribuzione.
Mappe della materia oscura tridimensionali e dettagliatissime, apparentemente valide per l’intero universo conosciuto, con la sola eccezione – appunto – di un’infinitesimale ma significativa porzione: la nostra galassia. Perché qui dalle nostre parti, come dicevamo, i conti non tornano. Eccezione sgradevole, questa, quanto potrebbe esserlo avere un navigatore satellitare che ci garantiscono superlativo con la sola esclusione, guarda caso, dei luoghi che possiamo raggiungere con la nostra auto…
È chiaro che non è una situazione accettabile. Ecco allora che, nel tentativo di far tornare i conti, un team di ricercatori guidato da Celine Boehm della Durham University, in Gran Bretagna, ha provato a simulare cosa accadrebbe se la dark matter fosse – o fosse stata in passato – un po’ meno ‘dark’ di quanto si crede. Ovvero, se oltre a essere soggetta alle leggi della gravità fosse anche capace d’interagire, almeno un poco, con particelle come neutrini e fotoni.
«Gran parte degli studi che si occupano di capire come la materia oscura sia passata da un fluido pressoché omogeneo alle galassie e agli ammassi di galassie che osserviamo», spiega ai microfoni di Media INAF Silvia Pascoli, ricercatrice italiana oggi alla Durahm University e coautrice dello studio pubblicato su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society, «assume che la materia oscura abbia solo interazioni gravitazionali. Chiaramente questa è un’approssimazione che non è corretta, perché ci aspettiamo che le particelle che costituiscono la materia oscura siano state create, in una certa fase della storia dell’universo, grazie a interazioni con altre particelle. Probabilmente le particelle del modello standard, come barioni, neutrini e fotoni. Ora, se queste interazioni sono importanti, possono avere avuto un’influenza anche al tempo in cui le galassie si sono formate».
Ecco così che, regolando in modo opportuno l’intensità dell’interazione fra la materia oscura da una parte, neutrini e fotoni dall’altra, Bohem e colleghi sono riusciti a simulare galassie del tutto analoghe alla Via Lattea, con una popolazione di galassie nane satelliti altrettanto ridotta.
Ma se la materia oscura non è così “orsa” come pensiamo, perché nei laboratori sotterranei, come per esempio quello sotto al Gran Sasso, ancora non si è riusciti a vederla interagire con alcunché di conosciuto? «Be’, se per esempio la dark matter interagisse con i neutrini, rilevarlo non sarebbe affatto semplice», osserva Pascoli, «perché i neutrini già di per sé interagiscono molto debolmente, e certo non si può costruire un rivelatore fatto di neutrini. Ciò non toglie che possano esserci altre conseguenze, magari osservative, sull’evoluzione dell’universo che potrebbero essere studiate».
Per saperne di più:
- Ascolta l’intera intervista a SIlvia Pascoli
- Leggi l’articolo “Using the Milky Way satellites to study interactions between cold dark matter and radiation“, di C. Boehm, J. A. Schewtschenko, R. J. Wilkinson, C. M. Baugh e S. Pascoli
Fonte: Media INAF | Scritto da Marco Malaspina