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"Sai che alla fine tu sei l'unico che, di tutti, m'ha amata nel modo giusto?". "Che vuol dire nel modo 'giusto'?". "Vuol dire 'giusto' per me, per come sono fatta, per ciò che mi sta bene e ciò che no". "Ne sono contento". "Vuoi sapere perché dico questo e cosa significhi 'giusto' per me?" "Non necessariamente, ma tanto me lo dirai lo stesso, no?". E ride. Mi fa venire una voglia di prenderlo a schiaffi quando fa così. Sa perfettamente come darmi sui nervi e ottiene sempre questo risultato senza alcuno sforzo - lui che è spontaneo, sicuro di sé e inno vivente all'amor proprio. "Il modo 'giusto' per me è che quando mi hai voluta c'è sempre stato amore, non mi hai mai preso in giro fingendo che fosse meno di questo. E quando mi hai visto stare male o avere bisogno ti sei sempre preso cura di me senza né perdere te stesso, né voler altro da me. L'hai fatto con noncuranza, come fosse la cosa più normale del mondo, senza strafare, fingendo che non ti costasse nulla". "Ti sbagli, è che proprio non mi costava nulla: figurati se faccio uno sforzo per qualcuno, io!". E io ripenso a tutte le volte in cui ci sei stato, e alla tua silenziosa discrezione, così come ai pianti che ho fatto tra le tue braccia quando avevo paura per la mia salute vacillante. Tu che se qualcuno sta male, o se muore un qualche nostro conoscente, diventi irreperibile finché il problema non è passato.
"E adesso come stai?". "Non bene, non sanno se operarmi o meno. Se mi operano mi fanno l'agoaspirato al seno, ma è un casino perché ci sono più cisti...". Ride. "E tu magari ti sei fatta il film che quello scoppia o si sgonfia come un palloncino... Non credo possa accadere, sai? Lì dentro avete tutta quella roba molle, ghiandole, carne...". "E poi sono davvero triste e nervosa. Per me stare bloccata in un posto significa la morte. Se non mi muovo ogni paio di mesi divento isterica. Vorrei andare via al più presto, anche se non so dove. E comunque con questo male non riesco a mettermi lo zaino in spalla". Mi guarda il profilo del corpo nella penombra. Da fuori non si vede nulla. "Povera piccola" - mi canzona - "fa tanto male?". E ride. Lo odio. "A tratti. In alcuni momenti non riesco a indossare una maglia per il dolore al capezzolo, la sensazione è come se avessi degli aghi dentro. Ma ora per esempio no". "Ah. Quindi, se ti si toccasse ora, non ti si farebbe male...". Un cialtrone, un vero cialtrone fatto e finito. Ricorrere all'impersonale è sempre l'ultima mossa nel gioco messo in scena prima di dichiarare entrambi vittoria e arrivare dove desideriamo. Mi guarda, lo guardo. Due espressioni di sufficienza e presa in giro reciproca tra amici, complici da tanto tempo. "No, ora no, ma potresti anche evitare". "Ok, eviterò".
Una volta non mi piaceva come si muoveva quest'uomo. Lo trovavo troppo sicuro di sé (pur se è l'antitesi della spavalderia, come me non tollera chi l'ostenta), sconcertante nei suoi modi decisi, e infine decisamente lapidario con chiunque gli desse fastidio (ricordo una volta che a un suo amico rispose di non essere sordo, e che non l'avrebbe ascoltato oltre se avesse continuato a parlare ad alta voce). Negli anni mi sono invece abituata a questo suo modo di fare e non mi disturba più. Anzi, in un certo senso lo apprezzo, anche se personalmente non riesco ancora a fare altrettanto. A me la gente frega ancora, e credo sia perché alla fine di me stessa mi importa molto poco. Non ho neanche più voglia di fare sesso. Non con lui che ho rivisto ora dopo un anno di lontananza - dico in assoluto. Lui non lo sa, ma ciò che sta per accadere mi sa quasi di definitiva autodistruzione o di qualche forma omeopatica di catarsi profana da ciò che mi ha destabilizzato negli ultimi mesi. Oppure è solo l'ennesima cosa che faccio per inerzia - mossa dal pensiero tristissimo che conviene farlo finché il mio corpo funziona, prima che medicine o futura menopausa mi porteranno a perdere completamente la sensorialità.
Mi si avvicina, e per la prima volta in anni di amicizia e di sesso insieme compie un gesto che mai aveva fatto: mette la sua mano intorno al mio collo, il pollice sulla giugulare e senza stringere in alcun modo - ché non è un gesto di violenza, bensì di piena difesa e protezione - mi avvicina con estrema delicatezza a sé e mi bacia profondamente, chiudendo gli occhi mentre li chiudo anche io. Un bacio dolce, appassionato e - finalmente, per me - sereno. Cammino all'indietro, a occhi chiusi, potrei aver paura di inciamparmi, ma sono al sicuro nelle sue mani - l'una che mi continua a cingere il collo, l'altra che accarezza l'anca - e così mi guida, passo a passo, lungo il corridoio, nella stanza, sino al letto. Mentre continua a baciarmi. Mi spinge sul letto ridendo, e io mi lascio andare sulla schiena. C'è una grande dolcezza nei suoi occhi, e per qualche indefinito, inatteso, insperato miracolo s'annullano in un istante tutti i miei pensieri svilenti sul sesso e sulle relazioni umane degli ultimi mesi. Sorrido e apro languidamente le gambe. In realtà ho un po' male - un dolore sordo di sfondo che prende il petto sino al braccio destro. "Tranquilla, lì non ti tocco", risponde leggendomi negli occhi e sorridendo con affetto mentre mi sfila la gonna e gli slip. Il mio cuore è inondato di silenziosa gratitudine. Da questo momento in poi le ossa dei nostri bacini si cercano, si toccano, si scontrano. Le mani ne seguono la linea e le accompagnano: mi è sempre piaciuto afferrare forte le sporgenze dell'osso iliaco di un uomo e chiamare così il suo corpo dentro il mio. E so che lui in silenzio se la gode, la sua mente persa nelle sue stesse sensazioni.
"Pensa se ti bucano e diventi di colpo piatta e poi si sentono gli ossi del torace. Pensa che figo sentire i nostri ossi che scricchiolano nel contatto!". Sospiro. Se tutte le perversioni degli uomini che ho incontrato nella vita si fermassero all'apprezzamento di un corpo magro e sportivo come nel suo caso! "Le ossa del torace. Si dice le ossa, non gli ossi". "Guarda che si dice anche gli ossi, adesso non è che sono così ignorante". Ancora un po' che non lo sei! - penso con perfida presunzione e cattiveria. "Adesso te lo cerco sul dizionario, così vedi una fonte autorevole, eh?". Prendo in mano il volume e cerco 'osso'. Leggo in silenzio. Lo guardo e taccio - ovviamente è il silenzio che precede l'ammissione della sua vittoria. "Allora, che c'è scritto?". "Il plurale del nome maschile 'osso' è femminile (le ossa) quando ci si riferisce all’insieme delle ossa del corpo umano o di un animale, o di una sua parte (le ossa del piede, le ossa di un bue); è invece maschile (gli ossi) quando queste parti anatomiche sono considerate separatamente (gli ossi delle costate) e negli altri significati (gli ossi delle ciliegie)". "Quindi vedi, tu che sai sempre tutto, che andava bene anche come dicevo io?". E ride di nuovo. Non ne sono convintissima, ma devo proprio sempre metterla sul dibattito intellettuale e tirare a vincere quando piuttosto potrei semplicemente godermela del dubbio? Mi godo il dubbio - è più interessante abitare questo che vincere sempre.
E poi penso che questo è l'amore che voglio, un amore vero e sincero, senza maschere, insicurezze, meschinità, finzioni, perversioni relazionali. Un amore che non si esaurirà con quest'uomo, né in questo letto, né in questo momento, e che potrò vivere con nessuno, con uno o con tanti, negli anni di vita che mi rimangono, perché la presenza di qualcuno che corrisponda il mio provarlo non ha più, di nuovo, alcuna importanza.
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