di Carlo Lugliè
Da cinque anni un progetto di ricerche archeologiche e archeometriche indaga sullo sfruttamento e la distribuzione dell’ossidiana del Monte Arci nella preistoria.
A Est dell’ampio Golfo di Oristano, nella Sardegna centro-occidentale, il complesso vulcanico del Monte Arci di 812 metri campeggia col suo compatto rilievo a scudo esteso per circa 150 kmq. Questo massiccio, formatosi essenzialmente tra la fine dell’Era terziaria e l’inizio del Quaternario, ha esercitato un forte condizionamento sul primo insediamento umano di questa regione ma non solo per la netta impronta che conferisce al paesaggio. Infatti per i versanti del monte, sotto i boschi secolari di lecci, roverelle e corbezzoli o tra la densa macchia di lentisco, erica e cisto, si disperdono in diverse località come in una vasta miniera a cielo aperto le ossidiane formatesi da circa 3,25 milioni di anni. Esse hanno avuto notevole importanza per le popolazioni preistoriche del Mediterraneo occidentale e sono state uno dei fattori di attrazione per le prime comunità neolitiche: approdati circa settemila anni fa in un’isola che le attuali evidenze archeologiche spingono a ritenere disabitata e coperta di foreste, questi coloni-pionieri hanno dato avvio al suo popolamento. Sa pedra crobina, alla lettera “la roccia nera come il corvo” è l’espressione più usata in lingua sarda per denominare l’ossidiana. Si tratta di un vetro vulcanico scuro e lucente che si forma sulla superficie terrestre per il raffreddamento rapido di lave dalla composizione acida: la caratteristica omogeneità della struttura di questa roccia e la sua durezza, consentendo un elevato controllo della frattura e un’ottima lavorabilità all’applicazione di diverse tecniche di scheggiatura, l’hanno resa una delle materie prime più apprezzate fin dall’antica età della pietra per la realizzazione di utensili d’uso quotidiano dalle forme e funzioni disparate, quali armature di proiettili, lame, perforatori, raschiatoi. Più raramente l’ossidiana veniva anche levigata per ottenere monili e oggetti di ornamento. In alcune aree continentali dell’Africa e dell’Asia come a Melka Kunture, in Etiopia, o a Chikiani, Djraber-Fontan- Kendarasi e Arzni in Georgia e Armenia, è testimoniata la produzione di manufatti in ossidiana da parte di cacciatori del Paleolitico inferiore, in tempi compresi tra 1.500.000 e 200.000 anni fa. Tuttavia, oltre che alle caratteristiche tecnologiche in- dicate e all’efficienza dei margini taglienti delle sue schegge, si deve a prerogative estetiche come la colorazione scura brillante e la traslucenza il fatto che l’uomo sia stato affascinato e conquistato dall’ossidiana in diverse regioni della terra e fin dai primordi del suo cammino evolutivo. Col passaggio alla preistoria recente e all’epoca neolitica, la progressiva istituzione di reti di scambio delle materie prime ha promosso una più vasta diffusione di questa risorsa, che ha raggiunto anche territori nei quali per la produzione di strumenti erano disponibili e sfruttate rocce alternative altrettanto efficienti. Questa circolazione per notevoli distanze è indizio di un’elevata considerazione dell’ossidiana per l’uomo neolitico, accresciuta dal numero limitato delle aree sorgenti: tutto questo ha spinto talora a considerarla alla stregua di un vero e proprio bene esotico, carico di valenze simboliche e indicatore di elevato status sociale per chi lo possedesse. Il Mediterraneo occidentale è una regione dove il fenomeno della concentrazione e marginalizzazione delle fonti di ossidiana risulta più evidente, perché quelle effettivamente sfruttate a partire dal Neolitico antico (VI millennio a.C.), sono tutte localizzate su isole distanti dal continente. Oltre che in Sardegna l’ossidiana si trova infatti circoscritta all’isola di Lipari nell’arcipelago delle Eolie, a quella di Palmarola nelle Isole Ponziane e a Pantelleria, tra la Sicilia e la costa nordafricana. Il loro reperimento periodico doveva senz’altro implicare il possesso di consolidate capacità di navigazione d’altura e una forte motivazione. L’attuale interesse degli archeologi per l’ossidiana è incentrato, oltre che sui sistemi di produzione che contraddistinguono le diverse comunità preistoriche che la impiegarono, anche sugli aspetti connessi alla circolazione di questa materia prima. Grazie alla “firma composizionale” che ne caratterizza l’origine e che si conserva inalterata nel tempo, questa roccia è studiata da decenni con lo scopo di localizzarne la provenienza e di delineare le forme di contatto e interazione tra le comunità preistoriche nelle più disparate regioni della Terra. Così, a fronte di rocce più diffuse o di più difficile caratterizzazione geochimica, l’ossidiana è divenuta a partire dagli anni ‘50 la cartina di tornasole privilegiata delle interazioni tra popolazioni culturalmente distinte, oltre che uno strumento per indagare i livelli di organizzazione sociale ed economica delle comunità che ne hanno promosso e curato la ricerca, la trasformazione e la diffusione.Le prime analisi
Nella prima metà dell’800 il capitano di fanteria dell’Esercito Sardo, Alberto Ferrero de La Marmora, con le sue appassionate indagini geologiche, topografiche e storiche in Sardegna portò all’attenzione del mondo scientifico il fenomeno ossidiana. Egli descrisse estesi depositi sul versante orientale del Monte Arci, facendo seguire numerose altre segnalazioni relative a diverse località dell’isola. Ben più tardi, al principio del ventesimo secolo, furono pubblicate le prime analisi petrografiche su pochi campioni esaminati dal geologo americano H. S. Washington. Ma è solo alla metà degli anni ‘50 che prese piede un’indagine specifica sull’ossidiana del Monte Arci in quanto risorsa di interesse archeologico, grazie all’edizione dei risultati delle ricerche condotte sul terreno dal sardo Cornelio Puxeddu. Le sue prospezioni estensive portarono all’individuazione di 272 località sul monte in cui era presente ossidiana: tuttavia, aldilà della segnalazione di numerose officine con abbondanti scarti di lavorazione – la cui interpretazione funzionale è oggi soggetta a revisione – questo studio pionieristico ebbe il merito di identificare tre distinte località, denominate giacimenti originari, in cui l’ossidiana appariva nella sua posizione di formazione. In breve tempo queste scoperte hanno stimolato l’interesse della ricerca archeometrica applicata a questa materia prima e, sulla scia delle prime indagini su larga scala formulate nel 1953 da J. Garstang per l’Anatolia meridionale, da più parti fu compresa a pieno l’importanza dell’identificazione dell’origine di una materia prima dalla diffusione ben circoscrivibile. Si era agli albori della stagione di studi preistorici che in campo europeo sperimentavano l’applicazione su materiali archeologici di diversi metodi fisico-chimici di caratterizzazione delle materie prime: l’obbiettivo era la formulazione di modelli interpretativi di fenomeni sociali generalizzati presso le comunità di interesse paletnologico, quali l’organizzazione della produzione, l’interazione, la reciprocità. È proprio in questo settore che le indagini sulle pro- venienze dell’ossidiana sono diventate una palestra per l’affinamento e l’impiego sempre più sistematico delle tecniche archeometriche. Su queste basi, gli archeologi hanno volto l’attenzione all’analisi della circolazione della materia prima del Monte Arci su vasta scala geografica. Come per le altre sorgenti del Mediterraneo occidentale sono stati dunque costruiti schemi descrittivi delle direttrici e delle reti di scambio strutturate a partire dalla Sardegna, facendo segnare di recente un forte incremento delle analisi composizionali su ossidiane “archeologiche” rinvenute in Corsica, nell’Italia centrosettentrionale e nella Francia mediterranea. Attualmente sono oltre mille gli insediamenti dai quali provengono ossidiane, scaglionati per un lungo arco di tempo, tra il VI e il III millennio a.C. Con l’applicazione sistematica delle analisi di determinazione si è andata formando una consistente banca dati sulla composizione chimica della materia prima dei singoli manufatti, ma le conoscenze relative agli aspetti sociali, ai meccanismi di sfruttamento della risorsa, della produzione, della circolazione e dell’uso dei prodotti non hanno segnato un progresso corrispondente.
Il prossimo traguardo
Per proiettare una luce sul sistema di produzione e consumo dell’ossidiana del Monte Arci in epoca preistorica, ricercatori delle Università di Cagliari, Pavia e Bordeaux e del CNRS, coordinati dalla professoressa Giuseppa Tanda, hanno strutturato un progetto di ricerca che integrasse appieno indagini archeometriche di determinazione delle provenienze e analisi tecnologica della manifattura. In primo luogo si è inteso procedere alla definizione degli stadi iniziali del processo di acquisizione e prima trasformazione della materia prima in Sardegna, per estendere successivamente l’attenzione all’analisi di reperti provenienti da contesti chiave della preistoria del Mediterraneo occidentale. I risultati preliminari sono incoraggianti: in relazione al primo obiettivo, sul Mon te Arci e nella regione circostante sono state classificate tre differenti tipologie di depositi di ossidiana: ai già noti giacimenti primari e sub-primari, dove il vetro vulcanico è inglobato nella matrice di formazione originaria o si presenta disgregato in contigui accumuli colluviali lungo i versanti, oggi si possono affiancare numerosi e consistenti giacimenti secondari, distanti fino a 20 km in linea d’aria dalle corrispondenti formazioni. Questi depositi secondari, con ciottoli fluitati a superfici esterne fortemente alterate, sono dislocati nei terrazzi alluvionali e negli antichi corsi fluviali della pianura del Campidano, fossa tettonica colmata da sedimenti quaternari che corre a sudovest del Monte Arci. Delle aree di giacitura secondaria è stata realizzata una prima mappatura, con definizione della composizione geochimica e della relativa sorgente di provenienza. Cartografare le aree di dispersione delle ossidiane, classificarne corrispettivamente le morfologie e le caratteristiche distintive macroscopiche di colore, traslucenza e tessitura delle superfici, è di capitale importanza quando si lavora comparativamente sulle collezioni archeologiche al fine di individuare i meccanismi e le strategie di reperimento della materia prima da parte dei primi gruppi umani insediati nella regione tra VI e IV millennio a.C. Si tratta di aprire una finestra su questi comportamenti e di ricostruire i modelli di organizzazione economica e sociale di comunità che hanno svolto un ruolo rilevante nell’avviare il processo di circolazione dell’ossidiana nell’isola e al di fuori di essa, contribuendo in tal modo a collocare precocemente la Sardegna al centro di una vicenda di contatti e di relazioni tra culture dal seguito plurimillenario, fino al suo definitivo ingresso nella storia per effetto dell’interazione con popoli organizzati secondo le dimensioni urbana e statale. In particolare, per interpretare la distribuzione insulare ed extrainsulare dell’ossidiana del Monte Arci è necessario individuare nell’evidenza archeologica i criteri di selezione preferenziale della materia prima applicati nella preistoria, ora legati alle prerogative tecniche o estetiche di ciascun gruppo geochimico, ora conseguenti a difficoltà e restrizioni nell’accesso a specifici depositi della materia prima dovute a fattori naturali o umani. Solo sulla base di questi elementi, infatti, è possibile fare precise valutazioni dell’investimento economico, corrispondente al tempo e all’energia di trasporto richiesti per l’acquisizione di una specifica qualità di ossidiana.
Saggi di qualità
A questo punto entra in campo il contributo dell’attività sperimentale, cioè della pratica di riproduzione dei gesti tecnici della scheggiatura dell’ossidiana e della loro organizzazione sequenziale in metodi riconosciuti caratteristici di specifiche aree regionali e riferibili a epoche circoscritte. Si tratta di uno strumento euristico indispensabile per riconoscere eventuali limitazioni tecniche insite nelle qualità di roccia meglio documentate nei siti archeologici (SA, SB2 ed SC) e per contribuire a interpretarne la rappresentatività statistica. La pratica di scheggia tura sperimentale sull’ossidiana del Monte Arci ha rivelato che tutte le qualità sono ugualmente adatte all’applicazione delle tecniche e delle sequenze operative che si riscontrano archeologicamente nell’area medio-tirrenica e, più in generale, nel Mediterraneo occidentale durante il Neolitico. Pertanto la selezione nell’approvvigionamento della materia prima si delinea in relazione ad altri fattori e secondo sistemi più complessi, variabili su scala diacronica. Nel corso del VI millennio, infatti, all’incremento progressivo di ossidiana nei siti della Sardegna e della Corsica non sembra corrispondere una precisa selezione delle varietà di ossidiana. Queste, facilmente disponibili intorno agli accampamenti dislocati nella pianura ai piedi del Monte Arci, appaiono sfruttate secondo comportamenti fortemente opportunistici, senza rivelare strategie di acquisizione-trasformazione fortemente strutturate sul piano organizzativo e su scala cospicua. Inoltre, sulla base della banca dati disponibile per i siti di questa fase antica della Corsica e dell’area tirrenica, non sembrano operare funzioni di filtro nella circolazione delle diverse qualità, come sembra avvenire successivamente nel corso del Neolitico medio (V millennio a.C.). In questa fase le reti di approvvigionamento sono sicuramente rafforzate, come attesta l’incremento quantitativo dell’ossidiana in Corsica e, soprattutto, nella Provenza e nel Mezzogiorno della Francia, laddove il materiale sembra essere di provenienza quasi esclusivamente sarda e prevalentemente della qualità SA. Oggi lo studio della produzione litica nei numerosi siti del Neolitico antico di-slocati intorno al Monte Arci, in quella che è definibile come la zona di approvvigionamento diretto, rivela un sistema di raccolta della materia prima in apparenza asistematico e non selettivo, con un ruolo chiave giocato soprattutto dai depositi secondari di ossidiana. Tale schema sembra estensibile anche a insediamenti ben più distanti dalle fonti, nei quali, pur in una tendenziale prevalenza della qualità SA, le collezioni di manufatti rivelano una buona rappresentatività dei tipi SB2 ed SC e un ricorso talvolta maggioritario a rocce locali differenti come la selce. Per questa fase antica, e successivamente nel V millennio a.C., non sono stati documentati centri di lavorazione specializzati sul Monte Arci, finalizzati a sfruttare su scala maggiore i cospicui depositi primari e sub-primari. Le attività di scheggiatura per l’uso immediato e per lo scambio sembrano risolversi perlopiù nei siti d’abitato. Ancora nel Neolitico medio per la regione di approvvigionamento diretto non si riscontrano variazioni evidenti nella scelta delle località di raccolta e delle qualità di ossidiana: appare diversa peraltro la distribuzione dell’ossidiana in direzione della Corsica e ancor più della Provenza, per le quali sembrano operare forme di filtro a favore di alcune qualità, ancora da definire nei contorni e nel significato. Ciò si verifica anche in concomitanza di un progressivo affinamento delle capacità tecniche e di una maggiore standardizzazione dei procedimenti di scheggiatura laminare, in quest’epoca maggiormente orientati verso la produzione di pezzi regolari e allungati.
I primi atelier
Allo stato attuale delle indagini si deve collocare alla fine del Neolitico (IV millennio a.C.) l’impianto di veri e propri centri di lavorazione sul Monte Arci, opportunamente posizionati presso i depositi primari, di cui sono sfruttati i materiali in affioramento senza realizzare attività di cava. Non sembra casuale che i più estesi e consistenti tra questi centri di lavorazione sfruttino i gruppi geochimica SC ed SA, per i quali nella fase matura e conclusiva del Neolitico si registra il primato quantitativo della distribuzione in terna ed esterna all’isola. La più grande concentrazione di questi atelier, talora di notevole estensione, si registra nel territorio del comune di Pau lungo il versante orientale del Monte Arci, in corrispondenza degli affioramenti della qualità SC. Qui sono state localizzate e delimitate oltre venti officine di scheggiatura, la più estesa delle quali, in regione Sennixeddu, ricopre una superficie di oltre venti ettari. Dagli studi in corso su centinaia di migliaia di scarti di lavorazione pertinenti verosimilmente a lunghi e ripetuti periodi di attività delle officine, ci si attende di poter definire i criteri di organizzazione e il livello di specializzazione della produzione; i risultati preliminari costituiscono un indizio di una generale tendenza alla standardizzazione dei metodi e dei prodotti della scheggiatura, seppur di grado variabile. La presenza di errori tecnici frequenti e ricorrenti indica un basso investimento tecnico, una competenza non sempre elevata e la presenza di apprendisti in seno ai gruppi di lavoro. In assenza di dati complementari sugli stadi avanzati e conclusivi della sequenza di riduzione, apparentemente assenti, è possibile identificare l’obiettivo della produzione di queste officine in supporti sbozzati e semilavorati, da immettere nelle reti di distribuzione interregionale. A questa fase conclusiva del Neolitico può infatti essere riferita con sicurezza l’installazione di un’attività di riduzione più sistematizzata e di scala, indizio di una mutata funzione e organizzazione della produzione e dell’instaurarsi di un principio di specializzazione per alcune attività artigianali. L’incremento esponenziale della stessa scala
di produzione segna un forte mutamento nella valutazione del bene e nella sua funzione sociale: questo è il momento in cui nella richiesta della materia prima sembra prevalere un’esigenza pratica e l’ossidiana risulta presente in quantità dominanti nei villaggi di un territorio regionale di più stretta affinità culturale rappresentato dal blocco insulare sardo-corso.
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Fonte: Quaderni Darwin – Archeologia in Sardegna