Ossos

Creato il 29 febbraio 2012 da Eraserhead
C’è un malessere abissale nei film di Pedro Costa, un disagio arenato nella dialettica del silenzio, nell’immobilismo, nei lineamenti antiestetici dei suoi attori (in parte non professionisti), un fastidio concreto nell’assistere alla rappresentazione di vite alla deriva, e, nel caso di quest’opera, nel quasi omicidio di una vita appena nata, nuova eppure già alle prese con le vecchie miserie di suo padre che è disposto ad ucciderla imbevendole le labbrine di alcol pur di non farla soffrire, e di sua madre, noncurante, oscillante, aspirante – del gas – suicida.
Le unghie sono lerce, le ossa solcano la pelle, gli occhi sono vuoti.
Prequel tra virgolette di In Vanda’s Room con il quale condivide sia la protagonista ferina Vanda Duarte che l’ambientazione diroccata di Fontainhas (quartiere capoverdiano di Lisbona che oggi non esiste più), ma dal quale si discosta per la tecnica di ripresa (qui pellicola, nel 2000 digitale), Ossos (1997) conferma a priori l’intenzione del regista portoghese di insinuarsi con assoluta discrezione nelle pieghe di un inferno tutto smog e detriti, carpendo l’assenza presente (l’ossimoro è solo apparenza) degli ultimi che ci sono ma è come se non ci fossero.
È un’elegia scolpita in un tempo reale, è un monolite nero che addolora.
Il cinema di Costa è così: nella sua indifferenza, sconvolgente.
E mi mostrò come era sterile sperare in giorni migliori, quando non si è nati con l’anima adatta a ottenere giorni migliori. Mi mostrò come il sogno non consola, perché la vita duole di più al nostro risveglio. Mi mostrò come il sonno non riposa, perché è abitato da fantasmi, ombre delle cose, orme dei gesti, embrioni morti del desiderio, spoglie del naufragio di vivere.
(Fernando Pessoa Il libro dell'inquietudine; Mondadori, 2010)

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