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Otello: Luigi Lo Cascio alle Radici della Tragedia

Creato il 12 marzo 2014 da Dietrolequinte @DlqMagazine

Alessandro Puglisi 

Ci sono “testi” che sono più di un semplice testo, ed è di certo il caso di Otello di William Shakespeare, tragedia fra le più rappresentate del misterioso Bardo. Tanto più gaudio, perciò, quando si assiste a riletture-riscritture coraggiose, diverse e profonde come quella di Luigi Lo Cascio, in scena fino al 16 marzo al Teatro Verga di Catania. Prodotto dal Teatro Stabile etneo e da E.R.T. Emilia Romagna Teatro Fondazione, questo Otello, che vede come interpreti Vincenzo Pirrotta nel ruolo del titolo, lo stesso Lo Cascio nei panni di Jago, Valentina Cenni come Desdemona e Giovanni Calcagno in un ruolo costruito quasi ex novo, quello del Soldato, si propone come una colta revisione dell’archetipo, condotta con coscienza ma non senza sprezzo del pericolo, entrambe prerogative ampiamente ripagate dal risultato. Nella bibliografia shakespeariana, Otello si colloca più o meno in posizione centrale, dopo commedie argute e non prive di sofferenza, come Il mercante di Venezia, e tragedie cupe, Misura per misura su tutte, e allo stesso tempo quale “apertura” dell’ideale trittico completato da Re Lear e Macbeth. Tragedia ambivalente e tutta giocata sull’accumulazione, Otello si sostiene sul triangolo di amore, odio e tradimento che il Moro forma assieme all’«onesto Jago» e alla bella Desdemona.

Otello: Luigi Lo Cascio alle Radici della Tragedia

Sono proprio questi i personaggi che Luigi Lo Cascio mantiene in vita nella sua riscrittura, tenendo ferma la conoscenza (forse con eccessivo ottimismo, potremmo azzardare) della vicenda nelle sue linee generali. L’operazione dell’autore/regista/attore è preziosa e rischiosa: da un lato scarnifica, facendo fuori, senza colpo ferire, personaggi come il Doge, Brabanzio, Graziano, lo stesso Cassio, evocato in absentia, Roderigo, Emilia, Bianca, riducendo Lodovico a poco più che una comparsa; dall’altro, aggiunge, immaginando un Soldato (Giovanni Calcagno) come sorta di narratore-testimone, un po’ spettatore provato e partecipe, un po’ anche burattinaio dell’ovvia insensatezza dei sentimenti umani. Non solo, Lo Cascio/Jago, oltre a operare di addizione, smonta e ricompone la temporalità della tragedia originale, facendo parlare i propri personaggi da un Oltre già varcato. Non è un caso, infatti, e in qualche modo, in ciò, Lo Cascio è più vicino alla probabile fonte di Shakespeare, Giambattista Giraldi Cinzio, dello stesso Shakespeare, che vengano messi in scena con chiarezza, da una parte il tormento infinito e la condanna senza sconti per Jago, dall’altra il rifugio del Moro (che in questo caso Moro non è, per dichiarazione programmatica) in un improbabile, liminale, finale viaggio sulla Luna in groppa a un ippogrifo. Di grande complessità, dunque, l’intervento sul testo originale, disossato, ritrattato, rimediato. Di più: tradotto, in gran parte, in un dialetto siciliano arcaico e allo stesso tempo contaminato, sporco, meticciato, inautentico; se Otello, Jago e il Soldato si esprimono in questa lingua “inaudita”, per contro Desdemona si produce in una lingua italiana piana, elevata, cristallina. Il primo scontro è linguistico, perciò, nello stridore terrificante del corpo a corpo tra elemento maschile, primigenio, rude, di emergenza in superficie, e controparte femminile delicata, sensuale, metafora di profondità non ancora esplorate.

Otello: Luigi Lo Cascio alle Radici della Tragedia

L’innesto meta-teatrale, che si concretizza nel personaggio del Soldato, è utile a realizzare un doppio racconto, nel quale le linee di sviluppo non scorrono parallele ma sempre tendono a intersecarsi, a confondersi. Come confusi sono, senza possibilità di smentita, i corpi gettati sulla scena: la fisicità imponente, tesa in una recitazione tanto intensa quanto espressionistica, “accentata” e splendidamente eccessiva di Pirrotta, come rinvenuta con ardore e tratta fuori dalle viscere, quasi urlata in faccia a se stesso e al mondo; la gestualità melliflua, mediata da una dizione rapida, da ragionatore, in Lo Cascio; infine, le movenze di Valentina Cenni, femmina e soldato, sensuale e in lotta con l’angelo che si porta dentro, come certe donne dei preraffaelliti. Questo Otello riparte dalla carne, strumento per esperire piaceri, saziare aneliti, indagare pensieri, sancire condanne ed eseguirle. Carne che si muove nello spazio scenico di Nicola Console e Alice Mangano, e “accanto” alle loro animazioni proiettate su un velatino o direttamente sul fondale della scena, come in un non-luogo beckettiano, di segregazione, di espiazione. Le uniche azioni possibili sono la lotta, il sacrificio, la disperazione; azioni tuttavia solo indirizzate a guidare il volere del “Moro-non Moro”, votato a sottrarre il soffio della vita alla propria amata, per necessità superiore o, come direbbe Fossati, «col cuore storto per oltraggio da umanissimo amore».

Otello: Luigi Lo Cascio alle Radici della Tragedia

I pochi oggetti di scena, spesso spostati quasi a vista, dietro il velatino scuro di cui sopra, o calati dal cielo del palcoscenico, non sono che poveri ausili a un grande dramma di parola, oggetti quasi senza importanza per questi derelitti, Otello, Jago, Desdemona, apparentemente capaci di salire tanto in alto solo per aggravare il volo, la caduta, lo schianto. La regia di Lo Cascio, oltre che l’operazione pregressa di rilettura e riscrittura, sono sicure, quasi sprezzanti, e l’atto unico arriva dritto allo stomaco, non dà respiro. Del resto, non si chiede respiro, a una tragedia, anche contemporanea: osservanti della storia, si chiede purificazione. Vincenzo Pirrotta è Otello più di Otello, oltre Otello, e Valentina Cenni è una Desdemona graziosissima, per la quale, diremmo, «’l suo fattore non disdegnò di farsi sua fattura» e, allo stesso tempo, ineffabilmente presaga del martirio, clamorosa Cassandra di sé medesima.

Otello: Luigi Lo Cascio alle Radici della Tragedia

Viene in mente Che cosa sono le nuvole, episodio di Pier Paolo Pasolini nel film Capriccio all’italiana del 1968, nel quale alla strisciante vendetta di Iago, lì interpretato da Totò, e alla discesa nel gorgo infernale di Otello (Ninetto Davoli) fa da contrappunto l’incanto spaventoso dei due burattini che, gettati in una discarica, osservano per la prima volta le nuvole, superando di slancio, nell’ora ultima, lo «strappo nel cielo di carta» di Pirandello; mentre Domenico Modugno canta del suo folle amore soffiato dal cielo. Luigi Lo Cascio mette in forma tutte queste suggestioni, spaziando dalla fantascienza al romanzo d’armi, dal racconto mitologico all’introspezione da psicanalisi, fra Tito Andronico e La tempesta, e crea, come un demiurgo presente in scena, una grande narrazione, profondamente contemporanea eppure vicinissima al core dell’opera di partenza. Più di qualche spettatore è stato visto uscire dalla sala in preda al dubbio, quando non al disappunto. È il danno, crediamo, di essere avvezzi alle pacatezze di certo naturalismo depauperato, alle passioni contenute, e trattenute, di quel teatro tipicamente d’evasione, di una evasione serena e inconsistente.

 

Fotografie di Antonio Parrinello

 

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