Ottavio Rossani, FINESTRE APERTE, alla chiara fonte 2011
Cosi’ il ricordo, considerato come occasione di frizione, mette in contatto le parole con la necessita’, il senso e la causa della loro origine. Solo che la parola, piu’ che ricordare, viene investita del compito di appellarsi: chiamare in causa “il bel tempo” che “accompagnava i desideri”, e decidere, non certo per ricostruzione documentaristica, se cio’ che e’ stato, e’ stato tutto vero.
Queste poesie, allora, decidono che le cose esistono non perche’ le possiamo ricordare ma perche’ “a sera il sonno che leniva la stanchezza/ci assicurava che era stato tutto vero”, posizione che colloca le poesie di Ottavio Rossani nell’area di una disillusa belta’: “Progetti,attese, infine delusioni./Solida la torre di Carlo Quinto dimostrava/da secoli l’immutabilita’ delle cose./Eppure la bellezza del Golfo/era sempre diversa dal giorno prima.”
I fatti narrati sono sempre, certo, ri/evocati ed e’ questa la condizione per sottrarli alla smemoratezza. Solo che il poeta ha la possibilita’ di percorrere due strade: quella del sognare, del dislocare nell’area del mito personale, e quella di tenersi nella lucidita’ del marmo, del distacco formale da una materia che evidentemente grida ancora che le sia dato un nome. Nel primo caso, Ulisse, il suo perdersi e ritrovarsi sono modelli potentissimi giunti fino alla modernita’; nel secondo caso la musa ispiratrice e’ Clio che, nell’esempio di Ottavio Rossani esprime la potenza di una memoria defraudata.
La favola, dunque, non abita la Storia. Perche’ la Storia e’ cio’ che rimane di impotente, sono i capelli grigi, i gesti compiuti senza alcuna promessa di futuro: “La stagione si consumo’ rapida./ E, ingrigiti, si rividero nella memoria.”
Che cosa rimane, dunque, dei nostri romanzi di formazione? Probabilmente quella forma di sacrificio naturale che si deve al tempo, e cioe’ la consunzione, che a volte trasformiamo in dolcezza e canto. Ma in queste poesie non sentiamo alcuna dolcezza, ne’ avvertiamo la potenza spocchiosa che si deve al racconto. Quello che e’ stato, infatti, continua a vivere in un tempo lontano da noi, come in una teca che possiamo osservare con distacco o partecipazione da un tempo tutte le volte diverso dal nostro sguardo.
Sebastiano Aglieco
***
Con la morte del piu’ caro amico
aveva imparato la paura.
Nell’incubo correva trafelato
inseguito da un cane lupo.
La sua attenzione si sposto’
alla ricerca di talismani.
E sotto la crosta del sorriso
resto’ una costante incredulita’.
***
La mareggiata, implacabile,
erose una parte della spiaggia
e alcuni casotti per la pesca.
In cambio restitui’ un bastimento.
Nei giorni seguenti andavamo
a rovistare nel tesoro della stiva.
Giulio trovo’ intatto un cappello
a forma di rosa che regalo’ alla madre.
***
Si giocava a rimpiattino nella segheria.
Le cataste di legni sagomati sembravano
inviolabili mura di un castello medioevale.
Correndo ci si poteva scorticare un dito,
tagliarsi la pelle di una spalla,
o ferirsi in fronte contro un ostacolo.
La sera, a casa, si aggiungevano le botte.
Il ricordo delle libere scorribande
confortava le notti dei diversi dolori.
Forse quella era felicita’.
***
Aveva creduto che a muovere la storia
fosse l’amore vincente su ogni cosa.
Era partito per raggiungere una meta,
voleva tornare con un cavallo bianco
prendere la sua donna e ripartire.
Tutto accadde secondo i desideri,
ma il tempo inesorabile
cancello’ i motivi carichi di giovinezza
che l’avevano fatto innamorare.