È di nuovo l’otto marzo.
I media oggi si riempiranno, come ogni anno, di articoli commemorativi, commenti sulla condizione femminile, interviste a sociologi e ad esperti osservatori dei cambiamenti di costume. Il tutto per celebrare una festa che festa davvero non potrà essere fino a quando nel mondo anche una sola donna continuerà a subire vessazioni per il solo fatto di essere nata senza gli attributi maschili.
L’elenco dei soprusi planetari nei confronti delle donne è così lungo e repellente che si fa fatica a scriverlo. Pur volendo per un momento lasciare da parte le torture e gli obblighi imposti da religioni e culture lontane da quelle occidentali, penso a riti sadici come l’infibulazione oppure ai divieti di mostrare il volto in pubblico o di uscire sole per le quali occorrerebbero riflessioni ben diverse, anche nella nostra “evoluta” società le donne continuano a essere oggetto di assurde prevaricazioni.
Dalle violenze fisiche, che troppo spesso culminano nei tristemente noti “femminicidi” a quelle psicologiche, che fin da bambine privano le donne di autostima e le educano a sentirsi inferiori, incapaci e perennemente bisognose dell’aiuto di una figura maschile (salvo nelle faccende di casa ovviamente), fino alle più o meno evidenti discriminazioni nei luoghi di lavoro, la lista che compone la cosiddetta “questione femminile” è lunga.
I mazzi di mimose che oggi coloreranno di giallo le strade d’Italia poco possono fare nei confronti di un problema che alcuni uomini minimizzano o addirittura hanno il coraggio di negare. Nemmeno si può sperare che la politica, così caotica e presa solo da se stessa, possa offrire da sola reali soluzioni. Perché la tanto agognata parità non è una questione da risolvere con quote color pastello. Certo, le leggi in passato hanno garantito molti diritti prima negati e sono state un passo fondamentale per l’equiparazione dei diritti civili. Ma la parità è prima di tutto una faccenda che riguarda il modo in cui le donne pensano a se stesse. E troppo spesso pensano male.
Mi irritano le statistiche in cui le studentesse risultano più preparate, più determinate, più titolate per qualsiasi carriera (si veda per esempio l’articolo del Corriere della Sera del 15 gennaio scorso sulla questione femminile) per ritrovare dieci anni più tardi quelle stesse ragazze nei ruoli di segretarie, assistenti o semplicemente mogli e amanti di uomini meno preparati, determinati e titolati.
Allo stesso modo mi fa orrore pensare che tante donne possano scambiare per amore la sudditanza nei confronti di uomini maneschi, dispotici e sentimentalmente inetti.
Si festeggiano le vittorie non gli armistizi tra una battaglia e l’altra, tra una tragedia e l’altra. Ogni otto marzo squillano le trombe del neo femminismo per poi venire riposte il giorno successivo insieme alle mimose appassite. E così di anno in anno.
La vera festa bisognerà farla quando i genitori smetteranno di educare in un modo le bambine e i figli maschi in un altro. Quando l’orario di rientro serale delle ragazze adolescenti sarà lo stesso dei loro fratelli, quando i padri la finiranno di incentivare i figli a fare i Casanova e al contempo di essere gelosi delle figlie che, fosse per loro, dovrebbero rasentare la santità; quando la scuola smetterà di consigliare la lettura de I pirati della Malesia solo ai maschi e Piccole donne solo alle femmine e di ripetere che il cervello femminile è più adatto alle arti e quello maschile alle scienze matematiche; quando i padri insegneranno ai figli a preparare una torta e le madri a usare il computer o ad aggiustare una bici, un motore, un elettrodomestico senza che a nessuno appaia come un’inversione di ruoli; quando tutte le donne impareranno a scegliere compagni con cui condividere oneri e onori della vita e non partner egoisti che, imperturbabili, leggono il giornale mentre loro cucinano e cambiano pannolini. Tutto questo già esiste. Chi, come me, ha la fortuna di viverlo sa che è possibile.
La scarsa scolarizzazione poteva giustificare il servilismo delle nostre nonne e madri, ma oggi le nuove generazioni hanno gli strumenti per garantire la trasmissione di una cultura dell’uguaglianza che si impara in casa e a scuola attraverso ogni gesto, ogni conversazione, anche quelle apparentemente più irrilevanti.
Di stereotipi preconfezionati che storpiano la percezione che le donne hanno di se stesse fin dalla nascita ne abbiamo sentiti a bizzeffe e quello di cui c’è realmente bisogno sono nuovi modelli che scardinino credenze ormai arrugginite e liberino talenti troppo a lungo imbrigliati. Mio figlio, undici anni, vuole recitare e ballare nei musical e mia figlia, che di anni ne ha otto, sogna di diventare scienziata. Cambieranno idea altre cento volte, ma almeno hanno chiaro che non ci sono strade riservate all’uno o all’altro sesso.
Oltre a smontare stereotipi è importante alimentare la solidarietà di genere. Perché le donne hanno una sensibilità diversa che spesso porta a vedere le altre donne come rivali e a non cercarne il sostegno. Fateci caso, già da piccolissime le bambine soffrono per la migliore amica che sceglie di giocare con la nuova vicina di banco, mentre i maschi sono sempre allegri compagni di tutti, superficiali, forse, ma più sereni. Un atteggiamento ideale. Che va insegnato. Altrimenti la sofferenza si ripeterà in ogni fase della vita.
Purtroppo, spesso, le donne sono vittime ma anche complici di questi atteggiamenti e preconcetti. Come ben dice Sheryl Sandberg nel suo libro Facciamoci avanti in uscita per Mondadori il 12 marzo, titolo che è già uno slogan (e un hashtag in Twitter), è fondamentale che siano le donne a fare il primo passo.
Passo che implica provarci sempre, quale che sia l’obiettivo. Perché per rinunciare, per tirarsi indietro e dire “non fa per me” c’è sempre tempo. Come è stato ampiamente sottolineato nel convegno “Facciamoci avanti – Le donne il lavoro e la voglia di riuscire”, tenutosi a Milano lo scorso 19 febbraio in occasione della Social Media Week e curato dall’associazione Valore D, alla base della conciliazione ci deve essere un nuovo modo di porsi delle donne nei confronti della vita. Secondo Laura Donnini, direttore generale di Edizioni Mondadori:
Superare il mito della perfezione, saper distinguere le priorità dalle urgenze, trovare un equilibrio che aiuti a superare gli inevitabili sensi di colpa, imparare a mettersi in evidenza anche a rischio di critiche e soprattutto avere passione per quel che si fa, sono i requisiti di una donna leader.
Lasciamo dunque le mimose nei prati (non me ne vogliano i fiorai già sicuramente afflitti dalla crisi economica) e moltiplichiamo le iniziative per incentivare l’eccellenza. Benvenuti allora i libri, i convegni, i blog o gli eventi “social” che promuovono questa nuova cultura dell’essere donna che mette l’accento sulla felicità della persona prima che sul raggiungimento di una posizione di vertice.
Perché non esiste un’unica ricetta valida per tutte, ma esiste una sola condizione per la felicità: quella di vivere una vita più aderente possibile al proprio ideale, circondati dall’amore delle persone che si amano.
Festeggeremo quando ogni donna (e ogni uomo) sarà in grado di vivere la vita che avrà immaginato per sé. E questo può voler dire sentirsi appagati facendo la casalinga o l’amministratore delegato di una multinazionale.
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