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Otto poesie di Laura D’Incà – proposta di Emilia Barbato

Creato il 09 gennaio 2015 da Wsf

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Laura D’Incà è nata a Monza nel 1967. Vive e lavora a Milano. Ha pubblicato nel 1993 la raccolta “Pane di nuvola” per Edizioni Nuove Scritture, Milano. Nel 2000 ha pubblicato il testo singolo “Le Donne ferite” per Pulcinoelefante, Osnago. Altre poesie sono apparse sulla rivista letteraria “Nuovi Confini” (N. 12 settembre 2001 e N. 10 marzo 2003) diretta da Paolo Lezziero per La Vita Felice. È curatrice del sito di poesia “Cloudeating”.

La zucca

A lungo mi canti
come zucca – polposa
dolce saporita, oh sì

Parola per parola mi scavi
e svuoti seme a seme
filo a filo

Di me tieni poi
solo la scorza – quasi
intatta – la zucca

Decora una tavola sguarnita

*

Passaggi a livello

Guido sulla strada dissestata
disseminata di passaggi a livello

Incrocio treni, immagino stazioni
Percorsi, nuove destinazioni

Aspetto qui il mio turno diligente
La sbarra che si alzi – si riparte

E intanto il verde intorno si fa sera
Notte, fuga oltrefrontiera

*

Trasparenze

Che nei rumori la strada esista
e nel silenzio muoia. Sono
nebbia, m’insinuo tra fessure rosse.
Grigiore diffuso, s’amalgama al latteo
sfondo. Allora, basterà il suono rotondo
dei sassofoni. O l’attesa al semaforo,
stretti nei cappotti.

*

Balene all’orizzonte

La tua bocca (la neve è caduta
E lui non è tornato) percorre
strade polverose. Senso (il mio
povero) e contrarietà (ammalato
intuito) assaltate. Abbandono
lucchetto chiave catena. Recisa
distrutta prigioniera. Torno.
Sali con grazia in sospiri. Il tuo
tocco (lui non è tornato)
è la strada già battuta. Spiegate
vele. Candore disperato. Tocco
(lui non) d’estate (tornerà).

*

Dalla terra sorgevo

Dalla terra sorgevo, zolle d’erba divelte.
In basso: radici sottili
nel buio della terra madida.

In alto, ramificavo.

La corteccia sul tronco germogliava.
Fogliame sul capo, al cielo rivolto.
Fiori ricadevano sul selciato.

Fiori. Venivano le api.

E dei fiori mi nutrivo poi
quando il vento frusciando
di quel verde mi spogliava.

L’acqua sorgiva assorbivo.

*

L’ultimo giorno

Seduta, un parapetto di cemento.
Le rovine cadevano apocalittiche.
Rottami d’intere vetrate a brandelli:
plastica carta gomma svolazzanti
come stendardi cavi liberati.
Sul parapetto, immobile.
Qualcuno venne, non visto
lento e improvviso come un’onda.

L’ultimo giorno.

*

La visione

Sfumava e labile riappariva.
Come tersi cieli di zucchero.
Neve come piume si posava.
E rapida scompariva.

*

L’albero

Disfatto il cielo in scrosci precipitava
le strade ridotte a improbabili guadi.
Con ruggito circolare, il fragore dei
nembi rimbalzava in nuove esplosioni.

Tonfi, ticchettii, rivoli. Il cielo
salvava le felci dall’aridità precoce.
Da misteriosa empatia sospinto
l’albero mi sfiorava oscillando.

E all’albero allora appartenevo
dal lucido cortile al dissolto cielo.


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