Magazine Diario personale

Our heads are just houses without enough windows

Da Margherita

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Oggi ho concluso la seconda settimana di lavoro in un ufficio pubblico. Ho un contratto della durata di due mesi. Dato che le mie competenze si sono rivelate indispensabili per la riuscita di un paio di progetti entro le deadline stabilite, è probabile che io ottenga altri quattro mesi, al termine dei quali dovrò trovare una nuova occupazione.

Penso di essere una stagista moderatamente fortunata. Mi è stato dato qualcosa da fare. Ho una mia scrivania, anche se invasa da scartoffie e volumi che non mi riguardano e che non saprei dove ricollocare. È previsto che io sia pagata, per quanto poco.

La prima settimana è andata abbastanza bene. Ho tentato di essere socievole e di vestirmi in modo presentabile.

La seconda settimana ho cominciato ad essere ripresa. Ora sto compilando una lista di tutte le cose che non posso fare nel mio ufficio. La aggiorno ogni giorno.
Molti dei divieti sono un tentativo di auto-tutela, di presentazione di un'immagine efficiente e seria dell'organizzazione. Da quando me ne sono resa conto, ho cominciato a cantare, perché la musica pre-registrata mi è stata proibita in modo esplicito. So che a breve mi verrà vietato anche il canto, e a quel punto diventerò un ghiro ed entrerò in letargo e non scriverò più.

Forse sono diventata grande, perché mi sto auto-censurando. Sto evitando di comunicare ciò che direi veramente, se non avessi paura di essere letta e riconosciuta e ripresa di nuovo, come quando andavo a scuola; se non avessi paura di perdere questo posto di lavoro che mi serve e, a conti fatti, è "ottimo" per me.

Però ho paura di impazzire.
So che suono sempre ingrata quando lo dico.
Oggi ho colto agitazione e urla irate in un'altra stanza. Non avevano nulla a che fare con me, ma mi sono comunque scoperta invasa dall'ansia, come se quell'agitazione e quell'ira potessero essere riversate su di me senza che io fossi pronta a riceverle. So che non avrei retto. Lo sapevo nel momento in cui, immobile, stavo in ascolto.

Quando mi riprendono, io chiedo scusa, anche se a volte so che sarebbe giusto pretendere lo stesso trattamento di chi ha un contratto a tempo indeterminato.

Ho provato a rifugiarmi sotto alla scrivania, o in biblioteca.
Ho provato a dirmi che devo lasciare che tutto scorra.

Oggi sono stata ripresa perché ho chiuso la porta della mia stanza. L'avevo chiusa per lavorare. Non riuscivo a concentrarmi per via del rumore che c'era in corridoio. Questo però non potevo dirlo.

Lunedì cade il mio ventiseiesimo compleanno. So già che passerò la giornata immaginando come sarebbe fuggire. Forse fuggirò davvero. Forse diventerò un ghiro, andrò in letargo e non scriverò più.

Dopo il lavoro, quando ne ho le forze, suono, e sono sempre le stesse canzoni. Certe sere mi blocco su alcuni brani di The Suburbs degli Arcade Fire e non mi muovo più.

Credo che The Suburbs sia il disco degli Arcade Fire che mi fa stare peggio. Ogni volta che lo ascolto sento risvegliarsi in me tutti i muscoli e i ricordi che credevo di non avere più, tutti i muscoli e i ricordi che mi nego, perché se non lo facessi sarei solo un animale, sarei incivile, sarei la creatura afona nascosta sotto la scrivania.

Quando uscì The Suburbs non lo intesi subito. Ricordo il modo in cui smontai alcuni versi, quelli che razionalmente non potevo tollerare.

Mi dicevo che le mie esperienze sarebbero state altre. Avrei abbandonato la provincia, avrei cessato di sentirmi come i ragazzini negli autobus che bramano di essere lasciati liberi, anziché condotti a scuola. Avrei scritto missive, spedito pacchetti, insinuato l'inchiostro nella carta, e avrei ricevuto risposte vere. Avrei trovato una soluzione alla solitudine. Avrei avuto qualcosa con cui chiudere la bocca a chi, da sempre, mi dice che devo fare la persona seria, smettere di essere così pretenziosa, di sognare così tanto.
Invece no. Invece eccomi qui.

Quando mi sento impazzire,
cammino al buio,
perché non voglio spaventare i passanti
mostrando occhi pieni di rabbia.

So che sono ancora viva
quando una canzone che ho ascoltato centinaia di volte
sulla mia bocca
mi rivela qualcosa di nuovo.
La mia voce si frantuma,
e provo timore all'idea che oltre il muro
si capisca che sto piangendo,
così continuo a cantare
e a suonare male
e contemplo il residuo delle mie plurime sopravvivenze
e contemplo con gioia la tensione che mi irrigidisce la schiena e le braccia
e spero che presto qualcuno risponda alle mie missive.

E ricordo la mia città attraverso un disco che parla di un'altra città
e ricordo lettere che ho solo immaginato, per anni interi,
lettere diverse, da persone diverse,

poter odorare la carta e sfiorare la calligrafia di una persona lontana

perché io mi offro in questi modi
e al lavoro rubo la cancelleria per farmi missiva
e se scrivo, è solo perché non ho alternative
e se scrivo, ho paura di essere scoperta
di essere ripresa
e se scrivo, sono di nuovo viva
e se scrivo, sono un animale
sono sacrificabile
e se chiedo che siano gli altri a scrivermi, a descrivermi, a darmi un senso,
so di commettere un errore,
perché dovrei potermi reggere sulle mie gambe,
sulle mie frasi,
ma al contempo
vorrei immaginare il percorso di una busta,
da quella scrivania al mio letto,
e vorrei che mi fosse dedicato il tempo che io dedico
a scrivere per gli altri, degli altri, sulla pelle degli altri,
e vorrei essere una creatura degna di parole degne,
sentirmelo dire senza che prima io debba frantumarmi.

Mi offro
e osservo la mia trasparenza
usata contro di me,
il vuoto che resta dopo,

quanto sembro difficile
riflessa negli occhi di chi
dice di non capire perché non vado bene,
ma non vado bene,
non vado mai bene,
anche quando le nostre mani s'intrecciano
e noi le osserviamo
sdraiati sul mio letto
sul tuo letto
su quel letto che non ho ancora conosciuto;

quanto sembro difficile
riflessa negli occhi di chi mi vede tornare a casa;
il modo in cui pianto i pugni contro i pulsanti della chiamata pedonale
e evito gli uomini in divisa
e le donne in divisa
e vado a comprarmi una birra al supermercato
e la metto in freezer
e mi sdraio sul pavimento sporco della mia stanza
e mi dico che sono ancora viva,
che quel giorno in cui credevo non avrei retto oltre
vidi i rami di un albero contro il limpido
cielo d'autunno
e mi ricordai che anche nelle città più aspre esiste bellezza,
anche nelle città più aspre.

(img: William Eggleston)


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