Si può dire che da sempre la musica per teatro (e tutta quella comunque fortemente connotata in senso rappresentativo) abbia avuto la necessità di essere introdotta da brani orchestrali più o meno brevi; e ciò per due ordini di motivi: il primo pratico, derivante dal dover fare in modo che il pubblico staccasse dal suo quotidiano, onde evitare che atteggiamenti comuni potessero distrarlo dalla fruizione ottimale o creare disturbo all’esecuzione della rappresentazione musicale; il secondo di natura più spirituale, consistente nella necessità di far calare il pubblico nell’atmosfera e nel pathos dei temi musicali e drammatici sviluppati nel corso dell’opera. Questo duplice ordine di motivi ha fatto si che i brani introduttivi si orientassero verso un duplice e contrapposto orizzonte: l’intimismo lirico necessario all’immersione nel clima drammatico-musicale e il brio indispensabile a creare lo stacco col vissuto quotidiano. L’Opera, come regina della sintesi tra musica e teatro, non ha fatto di certo eccezione; anzi, ha soddisfatto talmente questa necessità fino al punto di fare di questi brani dei veri e propri gioielli della composizione, tanto da poter essere tranquillamente eseguiti autonomamente, in diversi casi con un gradimento e una popolarità superiori alle stesse Opere per le quali erano stati composti.Il primo codificatore dell’ouverture operistica, il franco-fiorentino Jean-Baptiste Lully, compositore di corte del Re Sole, nella seconda metà del seicento utilizzò inizialmente questi brani, fondati sul rapporto tra un adagio-allegro-adagio, per i balletti di corte e successivamente per l’Opera in musica. Pochi decenni dopo, a Napoli, Alessandro Scarlatti formulò un’ouverture più fluida, comunemente detta Sinfonia all’italiana, nella quale l’iniziale Esposizione era seguita dal suo Sviluppo e da una Riesposizione finale.
Nel corso del settecento, i grandi operisti, da Rameau a Handel, da Gluck a Mozart, rielaborarono le formulazioni di Lully e Scarlatti, facendo prevalere ora l’una, ora l’altra, comunque tendendo ad evidenziare sempre più il legame dell’ouverture con il clima generale dell’opera. Esemplari quelle composte da Mozart per le Nozze di Figaro del 1786(in cui viene preannunciato il movimentato sviluppo dell’intreccio teatrale, ma anche l’imminente sovvertimento rivoluzionario) e per il Don Giovanni del 1787 (in cui si avverte l’incombenza del dramma sulla farsa che caratterizza l’Opera, aleggia un tormento esistenziale proto-romantico e il tema iniziale viene ripreso nella cruciale penultima scena del Convitato di pietra). All’inizio dell’ottocento, Carl Maria Von Weber sviluppò l’intuizione mozartiana della ripresa del tema nel corso dell’Opera, fino a un uso sistematico del Leitmotiv, sviluppato ulteriormente in seguito da Wagner; Rossini si concentrò sull’autonomia esecutiva dell’ouverture, giungendo alla composizione di brani anche di una certa durata, non a caso spesso inclusi nel repertorio propriamente sinfonico. La sempre maggiore competenza ed educazione del pubblico liberò, nel corso dell’ottocento, i brani introduttivi dalla necessità di favorire l’ordine e l’attenzione nelle sale. Così, accanto alla tradizionale ouverture o sinfonia, sempre più legata ai temi sviluppati nell’Opera, si fecero strada i preludi, brani introduttivi di minor durata, spesso collegati senza soluzione di continuità alla scena d’apertura dell’Opera. Il preludio, nato come sviluppo della tradizionale intonazione degli strumenti orchestrali prima dei concerti, già nel periodo barocco si era affermato come forma musicale in abbinamento con la Fuga, per divenire completamente autonomo dal romanticismo in poi (Chopin, Debussy, Shostakovich). In ambiente operistico, già Monteverdi nell’Orfeo utilizzò questa forma introduttiva breve, ma il suo utilizzo più sistematico si ebbe nell’ottocento maturo, da Donizetti in poi. Con Wagner, il preludio operistico, oltre ad anticipare il leitmotiv e a introdurre il pubblico nella stimmung dell’Opera, tese a una strutturazione sempre più complessa, sviluppandosi in durata e proponendosi anche come brano autonomo per l’esecuzione nel repertorio sinfonico; lo stesso Wagner non si limitò al preludio in apertura d’Opera, ma lo propose anche come introduzione di singoli atti. Verdi, accanto alle ouverture (o sinfonie), in alcuni casi anch’esse entrate con frequenza nel repertorio sinfonico (I Vespri siciliani, La forza del destino) e aleggianti i leitmotiv delle Opere, ne introdusse altre con brevi preludi, spesso sfocianti direttamente nelle scene iniziali. Sia Verdi che Wagner proposero anche Opere prive di introduzione strumentale, prassi divenuta comune tra gli operisti successivi.