Il piacere di parlare in un microfono yeti e di vedere la propria voce che si registra mano a mano su Audacity, facendo prendere forma ad una simpatica traccia audio. Piacere che si protrae nel tempo fino a quando nella frase non arriva una lettera “p”. Sì, proprio lei, la sedicesima lettera dell’alfabeto internazionale (quello con anche j e k, per intenderci), la fantastica lettera che – per essere pronunciata – richiede di emettere una potente onda sonora impulsiva.
ImPulsiva, appunto, praticamente una delta di Dirac della pressione dell’aria in funzione del tempo, o dello spazio. Tanto poi non cambia nulla, tempo e spazio sono direttamente proporzionali, di mezzo c’è solo la velocità di propagazione del suono nell’aria.
E, digressioni fisiche a parte, dove va a finire questo potente impulso d’aria? Dritto dritto nel microfono, facendo sballare tutti i sensori e portando la traccia audio più in alto del valore massimo consentito.
E allora interviene la correzione software, che assegna di default il valore massimo possibile al segnale di input. Risultato: quando riascolti la tua traccia audio, senti in continuazione quei divertentissimi “click”, in gergo tecnico detti… click, che fantasia. Non potendo certo tenere una traccia audio piena di scoppiettii simili a quelli dei popcorn nel microonde, cominci allora a pensare a qualche soluzione.
Primo, ti riprometti che mai più nella tua vita pronuncerai una “p” come se volessi sputare a chi ti sta di fronte, e ti metti ad allenarti a fare “p” senza emettere aria. O almeno emettendola in qualunque altra direzione che non sia quella dritta, in modo da non colpire in pieno il microfono. Ma poi ti rendi conto che non è così semplice, e che nella lingua italiana di “p” ce ne sono un sacco, e che se anche ti sforzi tu, potrebbe non fare altrettanto il tuo interlocutore nella trasmissione.
Secondo, abbassi il volume di registrazione, così almeno non si va oltre il volume massimo, così poi quando riascolti la registrazione l’unica cosa che ha un volume accettabile sono le “p”. Quelle però si sentono veramente bene. Peccato perdere tutte le altre lettere, ma pazienza.
Terzo, registri abbassando il volume, poi deamplifichi A MANO tutti i picchi delle “p”, e poi riamplifichi di nuovo tutta la traccia. Ottima idea, peccato che le “p” siano più o meno una ogni due o tre secondi di registrazione, quando ti va bene. Un vero spasso sistemarle una ad una, quasi quasi lo faccio per tutta la vita.
Saranno i deliri di un pomeriggio passato a lavorare su tracce audio? Penso proprio di sì! …mmm ecco, “penso” e “proprio” magari evitiamo di metterli vicini, giusto per evitare crisi di nervi.
P as click
Imagine the pleasure of speaking into a yeti microphone and seeing your own voice taking the form of a nice audio track, permanently recordered in Audacity, . That pleasure continues over time until you find a letter ‘p’ in a word of your speech. Yes, that’s her, the sixteenth letter of the international alphabet (the one with even j and k, you know), the fantastic letter that requires the emission of a powerful sound wave pulse to be correctly pronounced.
Impulsive sound, practically a Dirac delta of air pressure as a function of time, or as a function of space. Nothing changes actually, since time and space are directly proportional, with – as constant of proportionality – the speed of propagation of sound in air.
Leaving out these physical digressions, where does this powerful air pulse go? Straight into the microphone, over-ranging all the sensors and bringing the audio track higher than the maximum allowed level.
And then software correction intervenes, assigning the default highest possible value to the input signal. Result: when you listen to your audio track, you continuously hear these funny “clicks” in technical jargon called … clicks, really original. Since it is not recommended to hear an audio track full of clicks similar to that of popcorns in the microwave, you start to think about some possible solutions.
First, you promise to yourself that never again in your life you will pronounce a ‘p’ as if you are trying to spit in the face to those around you, and you start training to pronounce ‘p’ without emitting air. Or, at least, emitting it in any other direction except for the straight one, to avoid fully hitting the microphone. But, then, you realize that this is not so simple, and that in the Italian language there are a lot of ‘p’s, and that even if you try to do so, could not do so your interlocutor during the recording.
Second, lower the recording volume, so that at least you do not go over the maximum volume. In this way, when you listen again to the recording, the only letters which have an acceptable volume are ‘p’s. Those, however, sound really good. Shame to lose all the other letters, but never mind.
Third, lower down the volume, then deamplificate BY HAND all the clicks of the ‘p’s, and then amplify again all the audio track. Great idea, too bad that the ‘p’s are more or less one every two or three seconds of recording, when you’re lucky. Correcting them one by one is a very funny work, I would really love to do so for almost all my life.
May these be the ravings of an afternoon spent working on audio tracks? Penso proprio di sì! Mmm … here, “penso” and “proprio” maybe avoided so close, just to avoid tantrums.
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