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Sat, 22 Mar 2014 20:42:04 GMT
Sat, 22 Mar 2014 20:42:04 GMT
(Parral, 12 luglio 1904 – Santiago del Cile, 23 settembre 1973)
Uno tra i più grandi “poeti-pittori” di tutti i tempi, Pablo Neruda, nome d’arte di Ricardo Eliezer Neftalì Reyes Basoalto, poeta, diplomatico e politico cileno, annoverato tra i maggiori esponenti della letteratura latino-americana contemporanea, tale che Gabriel Garcia Marquez lo definisce: “Il più grande poeta del ventesimo secolo, in qualsiasi lingua”.
“Poeta-pittore”, in quanto Neruda, proprio come un pittore, usa una tavolozza di parole per dipingere il grande quadro della vita. Per alcuni ci vogliono anni, per altri istantanei momenti ispiratori; qualcuno ha la propria musa, altri fanno della propria stessa esperienza la più grande maestra. Dipingere l’esistenza, non è cosa semplice, ma le parole, come i colori, hanno la capacità di plasmarsi in mille sfumature, e quando il poeta è un eccellente pittore, è la vita stessa che posa per lui, facendosi ritrarre così, con estrema naturalezza, anche nelle viscere più profonde, unendo pensiero e bellezza, raggiungendo il sublime.
Leggere una poesia diviene allora come ammirare un quadro; lasciandoci pervadere da svariate emozioni, cerchiamo la sua chiave di lettura, e invece di una, ne troviamo mille. Mille, perché mille sono le maschere diverse che il poeta ha dovuto indossare, immedesimandosi di volta in volta, respirando l’esistenza, interpretandola e raccontandocela in tutte le sue tonalità.
“Ora, lasciatemi tranquillo”. Questo è l’incipit di una delle sue meravigliose poesie: Chiedo silenzio. Il poeta che diviene uomo prima che artista, l’uomo che diviene umanità, tramutando il singolo in comunità, in un climax ascendente dove poeta, uomo e umanità riflettono sul proprio ruolo, sul senso che hanno nel grande ingranaggio cosmico, chiedendo silenzio, tranquillità, in un mondo dove il rumore, lo stridore dei pensieri che seguono la logica della sopravvivenza, impediscono di coglierne l’essenza. È nel silenzio che “tutto torna”, dove “ il tutto “si dispone al proprio posto, conquistando il valore che gli spetta, rimettendo insieme i pezzi di una natura svalutata e disprezzata, di una vita troppo spesso accartocciata e gettata via, dimenticata.
“..Io chiuderò gli occhi
E voglio solo cinque cose
Cinque radici perfette.
Una è l’amore senza fine.
La seconda è vedere l’autunno.
Non posso vivere senza che le foglie
Volino e tornino alla terra.
La terza è il grave inverno,
la pioggia che ho amato, la carezza
del fuoco nel freddo silvestre.
La quarta cosa è l’estate
rotonda come un’anguria…”
Partendo dalla vita, passando per l’amore, arrivando alla morte e ritornando all’ “Essere”, il poeta ci mostra tutta la complessità del vivere. L’amore, quasi sempre presente nelle poesie di Neruda , che diviene , in questo caso, il motore creatore di una nuova “primavera”, la spinta per la rinascita, il “riscatto” dell’esistenza, dove ogni istante va vissuto pienamente, uscendo dalla “notte” e andando incontro al “giorno”.
“..La quinta cosa sono i tuoi occhi.
Matilde mia, beneamata,
non voglio dormire senza i tuoi occhi,
non voglio esistere senza che tu mi guardi:
io muto la primavera,
perché tu continui a guardarmi…”
Una luce che rinasce dal buio, il silenzio che non è morte, ma palpita di vita. La bellezza della vita che si comprende solo attraverso la morte:
“..Ma perché chiedo silenzio
non crediate che io muoia:
mi accade tutto il contrario:
accade che sto per vivere…”
Solo quando ci si immerge nella sorgente dell’esistenza, abbeverandosi dei piaceri che essa ci offre, respirando piccoli sprazzi di quotidianità, godendo di essi, nutrendoci del semplice “vivere”, comprendendo che è il presente ciò che conta, unico ed irripetibile, riusciamo a cogliere la bellezza del ciclo cosmico, arriva il momento dove possiamo acquietare il nostro animo e provare come spiega Neruda il senso della felicità. Così racconta nella sua poesia “Ode al giorno felice”:
“Questa volta lasciate che sia felice,
non è successo nulla a nessuno,
non sono da nessuna parte,
succede solo che sono felice
fino all’ultimo profondo angolino di cuore.
Camminando, dormendo, scrivendo,
che posso farci, sono felice. ..”
“…Oggi lasciate che sia felice, io e basta,
con o senza tutti, essere felice con l’erba
e la sabbia essere felice con l’aria e la terra,
essere felice con te, con la tua bocca, essere felice. “
Questi versi, sono come raggi di sole, emersi dal grigiore, spesso dilagante delle sue raccolte poetiche. Ma Neruda non è un poeta statico, la sua poesia attraversa turbini e tempeste, riscopre quiete e pacificazione, recando in sé il segno dell’immenso.
“Dovrebbe occuparsi di tutto la poesia, passando dal cuore del poeta”, diceva.
In lui ritroviamo un cruento romanticismo:
“ Ho un concetto drammatico della vita e romantico; non mi riguarda ciò che non giunge profondamente alla mia sensibilità”
Soltanto tenendo conto di questa dialettica, di questo contrasto vita-morte, luci ed ombre, si può davvero comprendere fino in fondo la sua poetica, dove l’inno alla morte diviene assai vicino all’inno alla vita, dove il poeta, proprio come un filosofo-psicologo rappresenta nella sua opera un proprio completo e complesso sistema del mondo e delle relazioni umane, con la sola differenza che invece di esporre il proprio sistema in termini di ragionamento, lo configura mediante la funzione poetica, per mezzo di simboli narrativi. E’ come se ogni poesia costituisse un piccolo modello di architettura del mondo.
Neruda, uno tra i grandi “poeti-profeti”, che versificando la normalità, la riempie di significati universali. Non a caso i suoi versi sembrano scritti “più che con l’inchiostro, con il sangue” a riprova della passione con la quale coltivava la sua arte. E quando l’arte infiamma, palpita, arde, nemmeno la morte la può spegnere.
Pablo Neruda, semplicemente eterno!
Di Elvira Fornito.