Scesi nei pressi di Mtenga Wa Ntengha, un ospedale a circa dieci chilometri dal mio villaggio.
D’un tratto, però, mentre avanzavo tra le bancarelle del mercato che affollavano l’ingresso, la sicurezza che mi aveva animato nel corso del viaggio svanì.
Il VCT, l’ambulatorio volontario dove si può fare il test per l’HIV, era subito dopo il cancello principale. C’ero quasi, ma non riuscivo a fare quel passo in più : volevo davvero fare il test?
Non sapevo molto sull’Aids. Avevo sentito che esistevano delle medicine, ma ero convinta che se uno si fosse infettato non avrebbe potuto comunque sopravvivere per più di uno o due anni.
Avevo visto ammalarsi e morire tante persone : uomini, ragazze, bambini che poche settimane prima sembravano invulnerabili morivano nel giro di pochi giorni.
C’era un programma radiofonico che andava in onda su Radio 2FM la domenica pomeriggio,”Il vento della speranza”, ciò che conoscevo veniva da lì.
I malati raccontavano le loro storie e le loro difficili esperienze di vita. Ascoltandoli, restavo ammirata: “Se si sono ammalati e sono sopravvissuti significa che anche io, se risultassi positiva, potrei sperare.Devo solo fare l’esame-mi dicevo- e togliermi il peso. E’ inutile rimandare”.
(pp.7-8)
a cura di Marianna Micheluzzi (Ukundimana)