Sarebbe naturale dire che ho il più bel padre del mondo. Il migliore dei papà possibili. Il più forte, il più buono, il più simpatico. Sarebbe ovvio perché è sempre così per tutti i figli del pianeta, nella stragrande maggioranza dei casi. I figli so’ piezz’ ’e core, ma altrettanto lo sono i genitori. L’amore smussa gli angoli, rende comprensivi e facili al perdono, spinge alla giustificazione di difetti più o meno grandi. Le cose stanno così per lungo tempo. I fanciulli osservano la vita dal bosco incognito e popolato da esseri dai quali occorre essere protetti. Nella realtà quasi fiabesca dell’infanzia tocca ai papà sconfiggere gli orchi. Il loro abbraccio scaccia via la paura: “lo dico a mio papà”, la frase magica alla quale ricorrere per avere la certezza di nessun capello torto.
Non sono più un bambino, da troppi anni ormai. Guardo il mondo da un punto di vista che, pur poggiando su basi solide, muta giorno dopo giorno, spinto dall’interesse per il gioco delle prospettive e dalla deliberata volontà di scindere i sentimenti dai fatti e dalle persone. Uno sforzo di obiettività che richiede rigore, altrimenti non se ne esce. Altrimenti tutto diventa complicato e ogni azione, ogni considerazione rischiano di apparire poco credibili.
Mio padre, che oggi compie settant’anni, potrebbe pertanto anche non essere il migliore dei padri possibili. O meglio, potrebbe non esserlo più. Ora che io non sono più un ragazzino, intendo dire. Ora che la riflessione oggettiva può avere gioco sull’affetto filiale. Ora che questo signore dai capelli bianchi ha smarrito lungo il suo cammino di uomo le qualità riconosciute istintivamente da ogni bimbo al proprio genitore: l’infallibilità di un pontefice e l’invincibilità dei supereroi Marvel. Ora che le distanze si sono accorciate e il rapporto è tra due uomini che un tempo sono stati padre e figlio. Ora che con tenerezza scopro in lui le insorgenti fragilità procurate dall’inesorabile incedere degli anni. Ora che so che fuori dalle pareti tiepide del nido si vince e si perde, e non ci sono padri che tengano. Ora che scorgo incastrate tra le sue rughe vittorie e sconfitte.
Ma se anche non fosse il migliore dei padri possibili, ecco: non avrebbe importanza. Non ha più importanza. Importa che è mio padre, che è stato mio papà, che ha condotto la sua vita e quella della nostra famiglia fino a qua. Fino a me davanti a questo monitor e alle mia dita che picchiettano inquiete sulla tastiera.
Importano le sue parole, che raccolgo e che ogni tanto spargo sui racconti come semi sulla terra arata. Con un gesto ampio del braccio, plateale. Il racconto diventa strumento di resistenza alla morte, perché in ogni storia c’è il miracolo della vita, della fatica della vita. Cicatrici e circo. La vita vissuta in prima persona, quella sentita sulla propria pelle anche se era sorte altrui, quella inseguita, quella abbandonata e quella trovata da qualche parte. Lontano. Una storia che mi precede, ma che pulsa viva nelle mie vene, che porto stampata sulla carta d’identità, nome di terra sperduta per gente in cerca di una possibilità. Una storia che sa del freddo delle baracche, di fame e di orgoglio. Di coraggio. Di partenze e di ritorni.
Fotogrammi veloci sui quali sfilano il sorriso dei santi e lo sguardo dei banditi, a conficcare come spilli la carne viva. Ogni ricordo un affondo.