Padre Marco vive in un eremo dedicandosi alla preghiera.
Io e Davide arriviamo leggeri alla sua dimora nella mattina inoltrata, ed il luogo che ci accoglie sembra essere deserto.
Sembra, ma noi sappiamo che non è così. C’è una finestrella aperta, e ci sono fiori ovunque, a rendere omaggio al tempo. La piccola stanza della ricevitoria è anch’essa spalancata; ci diamo un’occhiata e ci sono riviste religiose in ogni angolo, di quelle che non troveremmo nelle edicole; vedo rosari appesi ai muri, di tutti i colori e le fogge…
I monaci invece stanno tutti dentro, dentro le mura e le porte che ci separano da loro, o meglio, separano loro dal mondo.
Continuamo a guardarci intorno; per me è un luogo nuovo, anche se non mi è nuovo lo stile di vita; per Davide è un luogo della mente già conosciuto, già avvicinato, già incrociato nel tempo che fu. Luoghi della mente che sappiamo bene tradursi in luoghi della vita reale.
Sulle pareti e sulle colonne del porticato stanno appese le scritte monastiche che invitano al silenzio e alla preghiera, dicono a chi li legge che siamo in un luogo religioso, dedicato al culto di Dio Nostro Padre e Signore.
Sembra che vogliano preparare le persone a sapere come presentarsi, sembra che vogliano predisporre i viandanti a deporre fuori dalle mura i loro affanni, la loro quotidianità, il loro tempo mondano, per dire loro qualcosa del tipo “Guarda che qui il tempo finisce, qui sei nella casa di Chi per te è morto e resuscitato, qui cambiano le dimensioni delle cose, e quello che fino ad ora è stato il tuo pensiero o i tuoi pensieri dominanti, qui cessano d’avere importanza.”
Dobbiamo rivedere un amico, una cara persona che ha fatto la scelta di seppellirsi nella eccezionalità della regola benedettina, per vocazione, per fede, per amore della Chiesa e della Sua santità.
Ad un certo il punto portone si apre ed esce proprio lui, un omone dalla veste non proprio linda, che sta venendo dall’orto, ancora si porta addosso appesa alla cintola la falce del contadino.
Di Padre Marco mi colpisce subito la sua lunga barba bianca, ricciuta e morbida, da grande vecchio, anche se i suoi baffi rimangono decisamente più scuri, quasi a volere indicare un vigore ancora non sopito.
Infatti nulla di questo monaco anziano indicherebbe la sua veneranda età, vicino agli ottanta; non i suoi piccoli occhi vivaci e ridenti, non la sua possenza muscolare, non la sua assoluta lucidità, non il suo parlare gioioso e vivace, non la sua innata apertura al dialogo e allo scambio, non la sua curiosità nel chiedere dei vecchi amici, delle persone incontrate e poi perse per le strade della vita.
Padre Marco ci racconta d’essere arrivato in questo luogo di pace e di silenzio naturale trentaquattro anni fa e di essere subito stato colpito dalla bellezza del monte, del bosco, del cielo. Quello che nel tempo è diventato un edificio capace di sostenere la vita dei religiosi è stato il risultato di anni di lungo lavoro da parte dei monaci stessi e di molti volontari che hanno offerto con entusiasmo la loro opera, improvvisandosi ora muratori, ora elettricisti, ora uomini di misericordia.
Padre Marco parla, domanda, sorride e si lascia andare ai ricordi; ci confida che ha qualche problema ad un ginocchio, che dovrà sottoporsi ad una grave operazione, ma che non è preoccupato, a lui basta potere continuare ad essere autonomo, potere recarsi nella terra a fare il suo lavoro, che i tempi sono tristi, e che di questi tempi bui il potere coltivare un pezzo di orto può diventare di estrema utilità, soprattutto quando la piccola comunità monastica sta leggermente aumentando.
Si parla tutti insieme leggeri, le parole escono contente, e all’improvviso arrivano gli altri confratelli per l’ora della sesta.
Senza neanche rendercene conto ci troviamo tutti in cerchio, sotto il portico, seduti sulle panche, il breviario in mano; alle spalle ci scalda il caldo sole di questa bella ma ancora fredda giornata d’aprile.
Loro leggono i salmi o le compiete che dir si voglia, cantando; io non riesco a cantarli, i versi, mi accontento di leggerli, scandendo ogni parola come se fosse pietra.
Prima di andarcene ci tengo a chiedere a Padre Marco cosa ne pensa di quello che sta accadendo nell’Islam.
Lui risponde che si ritrova con il pensiero di Papa Giovanni Paolo Primo che aveva lanciato un grido di allarme in una sua enciclica. Il problema dell’Islam, dice il nostro amico, è che loro non hanno la separazione dei poteri, quello politico da quello religioso; che per loro credere è un obbligo e non una scelta; che la loro fede non rimane legata alla ragione, come accade al cristianesimo; infine che quindi è insito nell’islamismo un inevitabile radicalismo.
Insomma, mi rendo conto che in lui non parla un uomo di parte, anche se così potrebbe sembrare, ma solo l’uomo che vivendo pienamente la propria fede fatta di pace e di concordia, al prezzo di estreme rinunce, rimane scettico nei confronti di una possibile pacifica convivenza che non dovesse richiedere altrettanta fatica come altrettante numerose e pericolose incognite.
L’Europa ha perso le proprie radici cristiane già da molto tempo, almeno così sembrerebbe. La piccola minoranza che queste radici non hanno voluto perderle, non è certo vista comunque meglio da una religione che disprezza tanto l’ateismo quanto l’appartenere ad un credo che verrebbe dichiarato non vero.
Non mi sento di smentirlo. I fatti che stanno accadendo stanno andando tutti in questo senso. Sembra che l’estremismo stia vincendo sulla volontà di convivere pacificamente. Però non siamo che all’inizio di tante domande che attendono ancora la loro risposta. Qualche finestra di luce viene lasciata aperta..
Lo stesso Islam è chiamato a confrontarsi con le proprie contraddizioni interne e con i propri grandi conflitti mai risolti.
Prima di andarcene chiedo di potere portare via con me un piccolo rosario di legno.
Questo rosario potrà diventare uno strumento di costruzione, di comprensione, di condivisione, come anche rimanere un oggetto speciale ma banale dimenticato in qualche cassetto della nostra casa.
Le scritte disseminate sui muri dicono”Il tempo che dedichi alla preghiera non è tempo buttato via”
So che raccontano una grande verità.
Ci lasciamo con la promessa di rivederci e ce ne andiamo via leggeri così come eravamo arrivati, carichi solo dei nostri pensieri taciuti e condivisi solo nel cuore.
I monaci e le monache sono persone stupende, pensiamo dentro di noi, io e Davide.
Si dedicano al ritiro dal mondo senza dimenticarsi del mondo; si dedicano alla riflessione della Sacra Scrittura senza perdere la capacità di coltivare un vocabolario di umanità condivisa; insomma, non sono mica marziani diversi da noi; sono bensì persone che essendosi innamorate della figura di Gesù, hanno deciso di stargli vicino, cercando di dedicare ogni attimo rubato alle necessità corporali, alla scoperta della Sua inesauribile bellezza.
Non c’è nulla di simile nella religione islamica, e nemmeno nella religione ebraica. Sì, anche le altre religioni monoteistiche si cibano di estasi, di spiritualità, di solitudine e di separazioni, ma non hanno una Storia così importante come è stato il monachesimo europeo.
Il monachesimo è una cosa tutta nostra, che ha contribuito a costruire l’Europa e a farla diventare quello che era diventata.
Riuscirà ora, anche con il nostro aiuto di semplici cristiani che vivono nel mondo, a far ritrovare la pace dove detto mondo pacifico viene tutti i momenti messo a dura prova?