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Padri e figli: a proposito di “Morte di un commesso viaggiatore”

Creato il 13 gennaio 2014 da Lepiumedoca @lepiumedoca
la bella locandina dell'opera

la bella locandina dell’opera

Cara Virginia, ieri pomeriggio sono stata al Teatro Elfo Puccini a vedere “Morte di un commesso viaggiatore”. Difficile scrivere, di un testo sacro del teatro (Arthur Miller ), di un mostro sacro del teatro ( Elio De Capitani), commentatissimo in rete, trasformato in un film, anzi due, il secondo con Dustin Hoffman)…

Però Antonia ha occhi e orecchie che sono solo suoi, e sono certa che Arthur Miller sapesse, come ogni grande autore, che ogni spettatore vede il suo spettacolo, con la sua mente e la sua anima così come sono in quel preciso momento.

Che bel viso Arthur Miller!

Che bel viso Arthur Miller!

Dunque la prima cosa che mi ha colpito è stata la ricchezza del testo. La quantità di argomenti, di riferimenti, di spunti, roba da perderci la testa. Dal titolo e dal sapere comune si pensa alla perdita del lavoro, al diventare vecchi e obsoleti, al fallimento dei sogni inseguiti. E tutto questo naturalmente c’è. E considerando il momento storico che stiamo vivendo, è estremamente attuale e sembra scritto ieri invece che nel 1949 (alla faccia del progresso di cui ci vantiamo!).

Ma poi c’è un tema che io ho trovato più forte: che è quello dei figli e delle aspettative che si hanno sui figli. Perchè il dolore, duro fino alla follia, di Willy Loman non è solo quello del lavoro che gli sfugge dalle mani e del proprio fallimento. E’ il dolore di non capire un figlio di cui si è fatto una sua immagine che non corrisponde alla realtà, di vedere che suo figlio è diverso da come lui avrebbe voluto e ha creduto che fosse. E il finale, quel terribile finale in cui rinuncia alla propria vita perché la famiglia possa avere i soldi della sua assicurazione, conserva il convincimento che il figlio, una volta in possesso di un capitale, potrà finalmente fare le grandi cose che lui sa che può e vuole fare… nonostante il figlio sia stato con lui sincero e onesto fino alla crudeltà. A me sembra che avere dato spazio a questa seconda lettura sia stata una scelta ancora più contemporanea. Perché, ricordando anche l’inaspettato successo degli Sdraiati di Michele Serra (che però non ho ancora letto), il che cosa riescono a fare i figli, che cosa sono capaci di fare e quali sono le responsabilità e le non responsabilità dei genitori, è argomento dolente, spinoso e più che mai di attualità nelle nostre vite e nei nostri pensieri.

Che ne pensi di tutto questo, cara Virginia? Attendo un tuo commento!

Yours Antonia

Cara Antonia, quanta carne al fuoco!! Merito di Miller, sicuramente ma anche della tua  risposta complessa a tanta sollecitazione. Non ho visto lo spettacolo, ma mi fido di De Capitani e dei suoi attori. Quindi mi soffermo più sulle riflessioni circa l’ “esser figli”, che almeno nella nostra cultura mi sembra significhi  un lungo apprendistato, che per motivi diversi, culmina con la morte dei nostri genitori o con l’essere a nostra volta genitori, ma vale meno. Niente a confronto con i patronimici stampati per sempre nelle pagine dell’Iliade – tipo Pelide Achille-, ma molto simile al fatto che i genitori, per essere di una generazione precedente, si presentano agli occhi dei figli talvolta come eroi che abbiano affrontato molte più difficoltà.  A dire il vero diffido un po’ di questa versione dei fatti: diffido della versione progressista per cui “le cose cambiano” e non son più i tempi in cui tutto era difficile. Generalizzazioni che nascondono, a mio avviso, una sorta di pigrizia mista a tirchieria da parte delle generazioni precedenti. Da figlia avrei voluto mi si pensasse come un’adulta che affronta la crescita e colma le differenze, facendo tesoro delle esperienze pregresse. Quanto in nome dell’amore genitoriale e della paura invece si crea dipendenza? Per me il vero tema non è esser figlio di, ma degna adulta.

Virginia



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