Valige pronte, torniamo a casa. Ci aspetta il fuoristrada poi la barca e ancora l’auto, l’aereo, il treno e per finire il bus… ci manca solo la mongolfiera!
Lasciamo questo paesaggio stupendo, immagine pittoresca di un giardino incantato, con rovine che, a stento e timidamente, vengono avvolte da una vegetazione che non necessita di molta acqua per crescere. Quante cose potrebbe raccontarci questo paesaggio.
“Ecco anche questi visitatori ripartono con le loro cose. Mi incuriosisce vederli uscire da quelle scatole bianche che chiamano con vari nomi: case, uffici, alberghi… insomma da quelle cose disegnate con i loro strumenti rigidi anziché attraverso il linguaggio dei materiali che metto loro a disposizione da tempo. Dovrò tornare alla mia pacifica e paziente costruzione, demolizione e ricostruzione di me stesso. Certo anche loro costruiscono e demoliscono ma loro lo fanno in così poco tempo che i miei alberi non riescono a contare neppure cento anelli. Certo… alcuni hanno il grosso difetto, di lasciare o lanciare, spesso furtivamente, spiacevoli oggetti che deturpano il mio lavoro. Loro misurano, guardano, emettono dei piccoli bagliori di luce da scatolette con al centro del silicio ben levigato per ricordarsi di ciò che son capace di costruire da solo e con i miei tempi.”
Poco più di un decennio di abbandono ha reciso il rapporto tra l’uomo, costretto nella reclusione a prendersi cura dell’isola, e il paesaggio che li ospitava nell’asprezza di otto diramazioni carcerarie. Edifici che dopo anni di totale incuria vedono un via vai di tecnici impegnati ad immaginare un futuro imminente capace di far rivivere questo paesaggio abbandonato.
Sul fuoristrada percorriamo chilometri di curve, attraversando piccolissimi borghi carcerari, edifici abbandonati risalenti ad epoche vicine e lontane, e persino qualche “cattedrale nel deserto” di recente rifacimento. Alcuni edifici hanno un nome: “Casa del Direttore” “Caserma Monda”… altri edifici sono di tipo agricolo, di fattura povera e più degradata, funzionali all’uso delle terre e degli allevamenti. Quando saliamo di quota fra i tornanti a filo di costa, osserviamo il panorama che ci mostra generoso come questi diversi usi hanno disegnato il territorio, caratterizzandolo per zone omogenee. L’autista ci aveva appena fatto notare una tartaruga che attraversa la stradina in cemento, quando, seguendola con gli occhi dopo averla superata, a tutti cade l’occhio al centro della piccola baia, circa trenta metri più in basso, dove un enorme pesce nuotava lento, sereno ed indisturbato in pochi centimetri di limpide acque.
Pochi metri oltre la collina, compare ai nostri occhi una vista a dir poco sorprendente e che se fossimo di fronte alla tv parleremo subito di strani montaggi video. Da lì, vediamo lo stretto mostrare contemporaneamente il suo mare “di dentro” e “di fuori”, uno pacifico e l’altro rumoroso ed impetuoso con le sue frange di colore bianco. Le alte onde del mare di fuori si infrangono sugli scogli scuri e appuntiti che per un momento scompaiono sotto l’impetuosa schiuma d’acqua salata, per poi subito ritirarsi per far riemergere gli scogli quasi neri ed ostinatamente spigolosi. La calma inquieta del mare di dentro non si intimorisce per ciò che avviene pochi metri più in là. E’ una calma non perfetta, le acque sono infatti disturbate da un vento lontano, che le increspa tanto da non distinguere più le singole alghe adagiate e cullate sul basso fondale di sabbie bianchissime.
Risaliamo di quota sui crinali deserti e punteggiati dai tanti ruderi che con difficoltà fanno intuire la dimensione di vecchi edifici. Il mare di fuori è ora l’unico visibile, un po’ lontano scompare tra gli scogli aguzzi e scuri che lo separano dal paesaggio di terra. Un altro tornante e la natura esplode con i suoi colori esaltati per pochi istanti dal sole che fa capolino tra le nuvole. Attraversano in rapida successione una donnola ed un piccolo serpente che continuano la loro lotta per la sopravvivenza tra la vegetazione, bassa e rada di un paesaggio brullo. Le durissime rocce che ora si mostrano al nostro sguardo non hanno più nulla a che fare con quelle impegnate a fronteggiare il mare di fuori ormai scomparso alla nostra vista. Sono tondeggianti e di colore grigio chiaro e tra le fratture nette e dall’andamento ordinato, vi sono le radici di specie vegetali autoctone di grande rarità ed importanza, che sembrano disegnate e colorate da un’abile paesaggista in modo che si sposino bene con quelle forme lapidee e quell’ambiente così selvaggio.
Giunti alla banchina del piccolissimo porticciolo saliamo sulla piccola imbarcazione che, per l’ambiente umano che si crea tra le persone, sembra quasi un bus galleggiante. La navigazione dura poco. Il paesaggio che fino a pochi minuti prima si riusciva ad osservare fino al più piccolo particolare della tana della grossa lucertola vista durante una sosta del fuoristrada, sembra allontanarsi da noi e perdere di definizione. Da questa prospettiva, il paesaggio ci dà una chiave di lettura diversa. Quel paesaggio che non siamo riusciti a percepire da vicino lo comprendiamo allontanandoci da lui: il nostro tragitto in fuoristrada era costantemente vigilato dalle vedette seicentesche, le torri costiere, che punteggiano da allora i profili di queste coste, rendendosi ancora una volta elementi di riconoscibilità e d’identità di queste coste mediterranee.Ci voltiamo sull’altro lato dell’imbarcazione coperta, verso l’isola madre e ci rendiamo conto che altre torri stavano vigilando sul nostro arrivo già da qualche miglio. Questo paesaggio perde di naturalità man mano che ci avviciniamo, e scorgiamo anche altri tipi di “torri” che creano interferenza con il profilo naturale della costa che si avvicina. Sono nuove, moderne, dalle forme sgraziate e spigolose, sono tante. Alti pali che sorreggono i fari portuali, oppure sulle colline i tralicci reggono i cavi elettrici che scompaiono alla vista, o ancora aguzze corone di ripetitori telefonici montati sopra alti cilindri opachi che da lontano non raccontano la loro funzione. Questi elementi, così poco gradevoli alla vista nonostante le molteplici forme, ci accompagnano per qualche centinaio di chilometri fino all’aeroporto.
Dal finestrino dell’auto che già sfreccia vediamo andare in onda, per quasi due ore, un documentario che ricorda quei film degli anni venti accelerati e muti, ma stavolta va in scena a colori sembrando ancora più reale. Questo documentario, che si potrebbe titolare “l’abbandono”, ci mostra territori e paesaggi che presentano le timide tracce degli stretti rapporti tra l’uomo e la terra da lui un tempo coltivata. L’interruzione pubblicitaria è data dai nostri commenti contro incivili autisti che buttano le sigarette accese dalle macchine in corsa.
Dopo poco cambiano le pendenze dell’ambiente solcato dal nastro stradale, e le timide tracce diventano forti segni di straziante desolazione dei villaggi minerari dismessi. Meravigliose architetture industriali, sapientemente costruite con la scura pietra dalle tonalità proprie delle terre ferrose, che un tempo offrivano i pregiati minerali, ora dimenticate e cadenti.
Subito cambia il profilo e la forma del paesaggio che ci circonda. Attraversiamo un’ampia pianura interrotta da bassi e lunghi altipiani che sembrano raccontarti storie lontane.
“Qui ospitavamo delle antiche piazze per il controllo di questo ricco territorio… ci vedi, siamo allineati rispetto al punto di comando che si trova là, in alto. Guardaci tutte insieme, segui con lo sguardo l’allineamento dei nostri alti piani leggermente inclinati, e sarai condotto a quella punta lassù, dove in quel tempo sorgeva il nostro quartier generale di questa area vasta ben 100 torri a thòlos. E’ proprio lassù, punto che ancora oggi dominerebbe il territorio, se voi non aveste costruito quelle cose verdi alte e tutte uguali che voi chiamate “palazzi”. In quel luogo alto e lontano dai pericoli imminenti, se scavate solo pochi centimetri troverete ancora oggi ciò che resta di quella roccaforte e del tempio poco distante, quelli che voi chiamate “ruderi” o “rovine”. Oh com’è lontano dalla vostra umana memoria…”
Cambia di nuovo lo scenario, e lasciandoci alle spalle una collina dalle forme dolci da un lato e quasi rosicchiata dalla cava dall’altro, attraversiamo la zona industriale in prossimità dell’aeroporto. Subito svettano altre torri color acciaio che catturano fastidiosi riflessi a qualsiasi ora del giorno, oltre a sputare fumi bianchi o neri. Arrivando in aeroporto ecco ancora torri, questa volta pubblicitarie, che nascondono le forme dell’architettura aeroportuale che parrebbe non offendere la vista. Finalmente l’aereo prende il volo e dall’alto mi accorgo invece che ha pesantemente modificato il paesaggio, graffiandolo. Subito vedo con occhi diversi quella collina che mi sembrava semplicemente rosicchiata, forse un tempo è stata una piccola montagna. La prima parola che mi viene in mente per questo lembo di paesaggio, accorgendomi anche dei depositi di inquietanti fanghi apparentemente abbandonati è: “Stupro”, per usare un eufemismo. Certo che se anche questo territorio potesse parlare…
Giunti in aeroporto e saliti in aereo finalmente partiamo.
In pochi minuti ripercorriamo a ritroso le poche centinaia di chilometri macinati in auto e le strade appaiono come delle arterie che alimentano organi vitali di un corpo più grande. Collegano solo i centri abitati di maggiori dimensioni e subito appare quasi banale chiederci perché alcune aree si sviluppano ed altre vengono quasi dimenticate.
In poco tempo raggiungiamo l’altro aeroporto e mentre stiamo per atterrare sorvoliamo a bassa quota un piccolo paese da cui svettano questa volta delle torri campanarie.
In pochissimi minuti il paesaggio cambia prospettiva, diventando un ambiente frenetico, umano questa volta. Spazzi chiusi brulicanti di persone che non si guardano e corrono per recuperare i propri bagagli mentre si frugano le proprie tasche alla ricerca del biglietto del treno, che dall’interno dell’aeroporto conduce in pochi minuti alla stazione centrale.
Questa volta non riusciremo a guardare il paesaggio incorniciato dal finestrino, ben più ampio di quello dell’auto, perché siamo già concentrati a balzare sul bus che non aspetta.
Non siamo turbati dall’aver perso quest’altro documentario, perché tanto andrà in scena tutte le volte che prenderemo questo treno, dimentichi che, abbiamo avuto ed avremo sempre la stessa frenetica andatura. Se questa piccola porzione di paesaggio urbano dovesse sentirsi trascurata dall’attenzione dell’uomo, non potrà, purtroppo, esimersi dai loro gesti “infelici” che lo ricolmano di rifiuti. Di corsa saliamo sul bus che ci porta alla meta, e dopo pochi chilometri attraversiamo dolci colline disegnate con una maestria cinquecentesca. I crinali sono punteggiati da filari di cipressi ordinati che conducono alle ricche ville di campagna. Ogni centimetro di terra e di vegetazione si trova in quella posizione per un preciso motivo. La terra è riconoscente all’uomo per come essa viene curata e lavorata. Anche qui i diversi usi disegnano il paesaggio con i colori propri di ogni stagione in modo inconfondibile.
“Qui produciamo del buon vino, ammirate i vigneti che insieme curiamo. Ognuno secondo i propri compiti… qui invece i nostri ulivi ordinati e sempre sapientemente potati, ricoprono questo mio colle e stanno preparando, lentamente, il prossimo raccolto offrendosi a voi, gentili viaggiatori rispettosi, per farsi ammirare”.
Eccoci arrivare subito in città.
Ormai lontani da paesaggi incontaminati, attraversiamo i larghi viali trafficati che cingono il quartiere centrale, in cui ci muoviamo a piedi tra edifici alti su strade strette. Qui il paesaggio è urbano ed umano con linguaggi totalmente diversi.
Che noia, domani si torna alla solita routine: ufficio, attività frenetiche ed abituali insomma le solite cose. Entro a casa e mi trovo già sul letto, inizio un viaggio interiore ripercorrendo quei paesaggi che racchiudono storie meravigliose e lontane.