Un film folle, stralunato, divertentissimo e inquietante allo stesso tempo. Uno sguardo acido, genialmente nonsense, sull'insensatezza della vita e la cattiveria degli uomini: che sono tutti grigi, pallidissimi, tristi (anche se vendono scherzi), la cui capacità di ragionare sulla loro condizione è pari a quella di un piccione seduto su un ramo... Andersson si prende gioco degli esseri umani, ormai animali a-sociali e anonimi che si detestano cordialmente a vicenda. E il suo film assume i toni (tragici) della commedia dell'arte.
La vita ordinaria (e disordinata) di una comunità di poveracci che vivono sulle sponde di un lago, a pochi passi da una ultra-moderna base missilistica. Un ritratto amarissimo di un paese immenso e pieno di contraddizioni, dove il progresso sta uccidendo la Russia più tradizionale, fatta di persone che sembrano vivere nel passato. Un postino, che in barca fa la spola tra le misere casupole di legno, è il trade-union per questi derelitti. Almeno finchè la sua barca è in grado di navigare... Konchalovskij dipinge abilmente un mondo in disfacimento, ripiegato su se stesso, in cui è impossibile intravedere un futuro.
Il film italiano meno accreditato alla vigilia si rivela, a mio personalissimo giudizio, la più bella sorpresa della Mostra. Pellicola 'tosta', senza fronzoli, dura ed emozionante come un thriller, con un tema centrale che non mancherà di sollevare polemiche. Cronaca di un'ossessione e di un grande amore, che indaga (in modo finalmente 'moderno'e non banale) sui rapporti di coppia 2.0. Girato con uno stile 'indie' impensabile, finora, per una pellicola di casa nostra. Un consiglio: lasciate a casa i pregiudizi e vedrete che sorprenderà anche voi.
Ci si aspettava il capolavoro da Martone, sulla scia di Noi credevamo, ma stavolta non è arrivato. Intendiamoci: Il giovane favoloso è un bellissimo film, teso, appassionante, con una splendida colonna sonora. E che ci mostra un Leopardi quasi 'anarchico', pieno di energie, ribelle e rivoluzionario. Ma siamo lontani dalla quasi-perfezione del film precedente: il risultato è discontinuo, alternando scene 'epiche' a momenti didascalici e evidentemente di raccordo. Anche Elio Germano è così: interpretazione ammirevole e sofferta, a volte un po' esagerata e macchiettistica.
Film coraggioso, 'sperimentale', imperfetto ma estremamente affascinante. Non date retta ai critici con la puzza sotto il naso e andatelo a vedere: se non v'interessa un film d'inchiesta ma volete rituffarvi nell'universo pasoliniano, conoscere il suo mondo, questo è ciò che fa per voi. Abel Ferrara rilegge il Poeta a modo suo, spesso 'esagerando' col suo solito stile impetuoso e debordante, eppure l'uomo-Pasolini che esce fuori da questo affresco su pellicola mi sembra davvero vicino al reale. Uscirà in sala il 25 settembre e avremo modo di riparlarne.
MANGLEHORN (David Gordon Green) ★★☆☆☆
Inutile, David Gordon Green non riesce a convincermi, non c'è niente da fare. Dopo il sopravvalutato Joe dell'anno passato, eccolo di nuovo al Lido con Manglehorn: storia di un uomo burbero e abbandonato da tutti che passa le giornate nel suo negozio di ferramenta accarezzando il gatto e pensando, continuamente, alla donna che si è lasciato scappare. E anche se questo uomo burbero è interpretato da Al Pacino, il film non si solleva mai dalla mediocrità e da una sceneggiatura fintissima e posticcia. Pacino gigioneggia, si esalta, a volte irrita per come si 'mangia' il film. Senza però lasciare nulla allo spettatore.
Ennesimo, stanchissimo polpettone sul genocidio degli Armeni, raccontato da un regista turco/tedesco che dirige con uno stile da bignami mescolando nozionismo storico con un afflato melò decisamente fuori luogo. Lungo, interminabile, prolisso, ritmo da serie televisiva: Akin, che pure avevamo apprezzato ne La sposa turca e Soul kitchen, dimostra di non avere assolutamente il senso della tragedia. Da evitare.
Se Tetsuo era uno stracult, non altrettanto si può dire di Nobi: Tsukamoto cerca di adattare il suo stile 'esagerato', visionario, violentemente punk a una storia drammatica e reale, la guerra in Indocina (vista dalla parte nipponica). Ma stavolta perde ben presto il lume della ragione: si vede subito che al regista non importa un fico secco degli orrori della guerra... al contrario, la guerra diventa un futile pretesto per mettere in mostra le proprie ossessioni: corpi smembrati, teste mozzate, arti che volano in aria e vengono raccolti dai malcapitati, soldati che praticano il cannibalismo tra di loro. Francamente troppo per essere sostenibile e credibile, pur apprezzandone gli aspetti tecnici.
Forse il film più brutto visto a Venezia: non pare vero che il regista sia lo stesso di Gattaca, nonchè lo sceneggiatore di The Truman Show. Sembra passato un secolo da allora. Good Kill è il trionfo della più bieca retorica militarista americana, eticamente inaccettabile, tronfio, mellifluo, ruffiano, ultra conservatore (il soldato con rimorsi di coscienza, la bella famiglia con mogliettina fedele e prole adorabile, gli scrupoli del protagonista nel 'tradire' la consorte...). Assolutamente indigesto.