[OM] [Schizzi] "Dunque, io sarei quello…" dice l’uomo allo specchio, indicando ciò che vi proietta in trasparenza su ciò che ancora non vede, ma, come uno spettro, ugualmente lo inquieta. Lo scarto tra l’autoritratto e la presenza dell’altro è il posto del maestro, a metà strada tra un biografo fedele e un artigiano che, con uguale lealtà, a un certo punto, deve deporre le sue armi e aspettare che la sua opera sappia godersi la vita che già possiede.
Galatea è il frutto di un atto d’amore, una completa dedizione all’arte, cui una divinità concede il soffio vitale. Per quanto adombrata dallo stupore del suo demiurgo, la donna che sente i suoi stessi tessuti resistere e stancarsi, non prova dolore. Non è la materia dura a destare meraviglia nel prendere forma, bensì il suo sciogliersi lento e capillare in una creatura umana, se umano si può dire di ciò che umano non è al suo concepirsi.
C’è di più: Galatea riceve la vita dopo che l’uomo-scultore le ha già dato una forma: Venere rende fruibile la bellezza, una creatura nata dal pensiero e dall’abilità, le dà il soffio vitale dopo che è già giunta a perfezione, come in un progetto di eugenetica dell’incanto, e non so se sperare che l’uomo rimanga tanto incantato dalla bellezza da cercare di donare la vita per un simile miracolo o temere che ne venga abbagliato fino a dimenticare la sua natura.
Tra i racconti di Hoffmann selezionati dal compositore tedesco Jacques Offenbach, ve ne è uno in cui il protagonista si innamora di una bambola, Olympia, bellissima e capace di sedurre col suo canto. Pigmalione è diverso da Hoffmann perché è consapevole della realtà di quella creatura e chiede un’«eccezione»; ma Olympia è un modello più perfezionato, ironico di Galatea, diciamo al passo con i tempi cui sembra arrendersi l’uomo moderno. Probabilmente il maestro deve capire innanzitutto quale dei due uomini è, in partenza: se è cioè colui che vuol creare dal nulla, plasmare quella che crede solo dura pietra senza storia, oppure colui che si infatua di qualcosa che è mera apparenza, l’estemporaneo presentarsi del futuro ai nostri occhi. In entrambi i casi, per fortuna, l’uomo è un illuso: ha davanti a sé un’idea di perfezione che crede si possa raggiungere e lotta per riuscirci.
In entrambi i casi, il lavoro di cesello è indispensabile; il lavoro è maieutico o, se si vuole, michelangiolesco. Maieutico perché parte da un’idea, da un concetto, è una relazione innanzitutto intellettuale, consiste nel tirar fuori l’intelletto, il genio, dell’alunno; e nel frattempo si opera michelangioscamente a indovinare e a tirar fuori le forme reali di quelle creature che ci si trovano davanti, spesso in gelosa difesa della propria apparenza. Non c’è uomo, credo, che non sia convinto di essere già quello che è; e sono in troppi coloro che si sono arresi a una posizione sociale, a un curriculum, a un’idea che non riassume, anzi neanche sagoma, la sua natura, la ritaglia soltanto tra le opzioni che ci si porgono in offerta speciale. Chi è arrivato, ha un’idea di sé meschina. Ma i nostri alunni mirano proprio a questo, a fissarsi in una posizione che credono fossile e invece è fittile.
Ciò su cui si deve agire è una doppia rigidità (a trascurare quelle di chi vi lavora su): l’idea di un oggi in ambasce, ancora tutto da definire e, nello stesso tempo, proprio perciò incrostato, poco incline a mostrarsi. Forse perché abituati al culto della forma, difficilmente sopportiamo la sciatteria delle forme scomposte della "notte" o delle difficoltà a essere nel mondo (anche se i reality show puntano a valorizzare proprio la sciatteria).
Ma c’è anche l’idea di un domani che spesso non sa definirsi come sogno e si profila sotto forma di posa, di immagini incancrenite, incapaci di modellarsi secondo la volontà, come degli inclusi nei cristalli. La rigidità delle forme provoca dolore nel modellare i loro incastri, non c’è dubbio che si finisce per colpire angoli nevralgici, superfici levigate e inutili, anzi dannose, al nostro essere intellettuale e spirituale più vero e più profondo.
Io posso, e direi anche che devo,provocare la sofferenza dei miei ragazzi, altro che misurare il successo della mia azione didattica sulla base dell’assenza di "sofferenza", perché solo così sto agendo su quegli automatismi balordi di cui finiamo anche per vantarci, su quei luoghi comuni, su quei pregiudizi che non sono la prima tappa di ogni sano processo razionale, ma l’esito della pigrizia intellettuale di cui ci lamentiamo.
Semmai, dal momento che li abituiamo al fatto che la vita presenta sempre il suo conto, dobbiamo far sì che loro ricordino che questa sofferenza, come le gioie, non è gratuita ed è solo momentanea; ma, rispetto a molte delle loro gioie, li aiuta a superarsi davvero, nei nodi cruciali che li bloccano a uno stadio più puerile e meno produttivo, soprattutto più lontano da quello che loro sono e possono voler riconoscere in se stessi.
La sofferenza non sta certo in una regola sintattica da mandare a memoria oppure da applicare, sta in un’apertura al mondo che non è neutra, perché costringe i ragazzi a una nuova nudità (come se Galatea un certo punto si accorgesse di essere stata scolpita nuda). Il mondo non è semplice e, purché non venga complicato da modelli ingiustamente verbosi, non deve essere avvilito da una rinuncia alla sua sana, ricca complessità.
Certi argomenti, dunque, hanno il valore che hanno proprio perché consentono al ragazzo di affrontare questa complessità di cui parlo. Li si affronterà in modo da non ostacolare l’incontro con l’altro a cui tanto teniamo e in modo che ci siano anche gli scivoli per i portatori di handicap, ma il concetto deve rappresentare comunque una tappa più elevata del cammino intellettuale intrapreso al primo incontro. Io non li tirerò su a forza.
Quest’esempio ha un nome, ed è uno degli argomenti più complessi della sintassi greca (che per alcuni, tra l’altro, sembra non esistere). È il periodo ipotetico, che in greco conosce quattro forme, più uno misto. Ma ci interessano i primi quattro, che sono i più interessanti, perché presentano, codificato, rispetto al latino e all’italiano, un elemento molto pregnante se si guarda alle possibilità filosofiche e narrative a cui consentono l’accesso.
Il periodo ipotetico (sinteticamente se…, allora…) è composto da due proposizioni. Una, quella con il se, o analogo, si chiama protasi, e pone la condizione per il verificarsi dell’azione principale, ma è una subordinata, cioè non può esistere se non vincolata a un’altra frase (se non piove in sé non significa nulla). L’altra è la proposizione principale, ovvero si regge da sé e senza bisogno di nulla (usciamo ha un suo significato autonomo).
Per essere più chiari: la realtà, l’eventualità, l’irrealtà, sono quelli insiti nella frase con il se o analoghi. Cioè si riferiscono al fatto che può piovere - per cui la possibilità è reale – ma non si sa se pioverà e dunque il se non piove è una condizione reale al mio uscire; ma il periodo ipotetico della realtà non dice assolutamente nulla sul fatto che usciremo domani, notizia che dal semplice rapporto tra le due frasi non si può in nessun caso ricavare. Stesso vale per il periodo ipotetico dell’eventualità, che sottolinea ancora di più l’incertezza sulle condizioni meteorologiche e dunque su ciò che faremo noi. Perché un’altra cosa che non si dice mai se non nelle introduzioni alla sintassi, che non si leggono mai, è che le proposizioni sono la traduzione verbale di azioni che ci riguardano direttamente: codificandole attraverso la sintassi, semplifichiamo le nostre azioni, non le complichiamo.
Nel caso del periodo ipotetico dell’irrealtà, la sintassi è così chiara da richiedere il tempo passato. Oh, se la nave Argo non avesse mai solcato i mari… comincia, rassegnata, la Medea di Euripide. Ma è già successo, e in quanto successo, quasi per ubbidire ai precetti della poetica aristotelica, è ineluttabile. Dunque il se viene seguito da un passato, che taglia la testa al toro, e dunque anche l’apodosi diventa irrealizzabile (Medea sarebbe felice, ecc.). Per trasferire l’esempio da un modello letterario a uno quotidiano, è come se dicessimo che domani andiamo a mare, se fa bel tempo, a gennaio, e con tutte le previsioni metereologiche concordi nel prospettare neve e vento siberiano. Nessuno dubita che ci sia la buona intenzione di andare a mare, nonostante la palese idiozia della condizione, però l’irrealizzabilità delle premesse determina la pari irrealizzabilità dell’evento bagno.
Nel periodo ipotetico della possibilità, invece, succede qualcosa di più complesso.
L’interrogativo, cioè, viene dilatato all’apodosi. Cioè se domani facesse bel tempo, potremmo andare a mare; già, ma anche no, potremmo anche fare un pic nic in campagna con i nostri amici e così via. Ai ragazzi questa sembra questione di lana caprina, eppure la nostra vita è costellata perlopiù da queste eventualità non obbligate, che noi traduciamo in termini sentenziosi: "sì, prima deve fare bel tempo, poi si vede…".
Tenendo conto del contesto, tendenzialmente diffidente, della nostra terra e dell’incertezza in cui si svolgeva la vita dei Greci, in balia del caso e dei capricci dei loro dei, questa pretesa sfumatura può assumere il valore di disillusione e moltiplicare in effetti le protasi all’infinito (ma noi le sintetizzeremo in un semplice e se non ho di meglio da fare e comunque se ho proprio voglia di andare a mare e di portartitici…).
Quando noi enunciamo la regola, se non siamo dei grammatici ciechi e idioti, stiamo già realizzando un modello di vita che ha le sue regole, ha le sue dinamiche, le sue idiosincrasie. A volte, impariamo più da questi modelli grammaticali che non dalla sistematicità di molta trattatistica filosofica: o almeno impariamo come noi riduciamo dei sentimenti a sintassi, cioè a qualcosa di dominabile, senza sbrodolare troppo senso.
Questo periodo ipotetico della possibilità, con cui vi ho annoiati, sganciando la condizione dall’azione, lascia a quest’ultima, e dunque al suo agente, una libertà nuova, e comunque genera la suspence che è propria dell’agire umano, dal momento che non è detto che la bella giornata significhi mare, anche se così era stato previsto (se escludiamo, è chiaro, la folla dei palermitani che si accalca a Mondello ai primi soli primaverili…).
Quando i ragazzi raccontano tutto col discorso diretto (e lui ha detto «me lo dai l”iPod?» e io gli ho risposto «oggi scordatelo, perché non te lo portavi?» che lo lascia sempre a casa) e manifestano una difficoltà quasi pandemica a mediare l’esperienza in un processo unitario, in una storia; la codifica in discorso indiretto è un disagio non linguistico, ma di pensiero, che va educato a riflettere sulla realtà e non a specchiare la realtà.
Un esercizio in tal senso, dunque, non è faticoso perché richiede nozioni complesse, bensì perché agisce su quelle dinamiche della realtà che risultano tanto difficili da vedere nel loro movimento, fissate come sono tradizionalmente in immagini standard (per altro codificate in sociologia sotto il nome di frames, da un americano impertinente e geniale dal nome Erving Goffman, che ha riflettuto tutta la vita sugli automatismi del quotidiano).
D’altra parte, uscire dagli automatismi quotidiani, che diventano sintassi spezzata ed elementare, come la vita non è mai, è un’avventura: si rischia di non riuscire a riconoscersi nelle azioni pensate. Ma nessun espressionismo verbale, che poi corrisponde quasi sempre solo ad eccessi esistenziali, potrà mai compensare il disagio, la gioia e la complessità dell’essere vivi, liberi di agire e di riferire, dunque trasmettere, la vita e la libertà. La sinonimia, la sclerotizzazione sintattica non derivano da una povertà di conoscenze grammaticali in sé, ma da una povertà intellettuale nei confronti della vita. Io, per esempio, devo ancora arricchirmi tanto per scrivere tutto in modo più comprensibile. Intanto posso solo ringraziarvi della vostra pazienza. Spero, almeno, che la mia prolissità non abbia nociuto troppo alle possibili aperture di senso che queste idee offrono.
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