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Correva l'anno 1990 e i JUDAS PRIEST ormai in declino dopo i fasti degli ultimi 15 anni davano alle stampe il disco definitivo dell'heavy metal. Da lì in poi, con il parallelo inaridimento del thrash (il filone che aveva reso ossigeno al mondo dell'hard&heavy) e l'avvento dei sub-generi avvitati su sè stessi avrebbe definitivamente decapitato il capostipite e reso l'hard una nicchia.
Capire PAINKILLER oggi è più facile, i Priest fecero il cosidetto canto del cigno e poi si separarono fino alla reunion (neanche tanto patetica, ma comunque sempre reunion è) del 2008. Ancora girano e spaccano ma, come si suol dire, sono diventati la cover band di sè stessi.
PAINKILLER mise il sigillo, per chi odia il genere è solo un disco di fastidioso metallo, ma per chi lo ha amato e seguito il disco in questione rappresenta questo:
"ecco adesso è stato veramente detto tutto e ai massimi livelli, più di così non si può, chi cercherà di fare ancora queste cose sarà solo un imitatore".
Negli anni a seguire arrivarono solo morti sgozzati, shredder e un rosario di generi sempre più incomprensibili (doom, death, grind e tutte quelle robe lì). Fino a vedere qualche luce negli ambienti post-metal (Isis e Neurosis i massimi a mio avviso). Oppure a vedere band ricopiare pedissequamente stili e metodi dell'epoca d'oro (cito i Trivium tra i tanti, che sono bravi sì ma si rifanno pesantemente al passato).
Dentro Painkiller ci sono tante belle canzoni, fra tutte spicca la melodica e cadenzata Touch of Evil che, spogliata dell'arrangiamento heavy, suonerebbe buona anche in un disco di pop. Perchè i Priest erano ottimi songwriter, oltrechè depositari dell'iconografia del genere.
Ma la title-track condensa in 7 minuti quanto si era saputo masticare e rimasticare nei 15 anni prima.
In particolare la chitarra di Glen Titpton (non credete a chi lo snobba, è uno dei 5 massimi guitar-hero del mondo hard) sciorina un compendio delle tecniche possibili non disdegnando l'hammering (quella col ditino della mano destra a martello sulla tastiera) di vanhaleniana memoria ma puntando molto sullo sweep-picking (difficile da spiegare, una specie di arpeggio velocissimo in cui guida la destra e la sinistra segue sulla tastiera, un pò invertendo i ruoli delle mani).
Ma nello sciorinare le tecniche Glen lo fa con il suo stile inimitabile. Anche lui parte della categoria "UN UOMO UN SUONO" e guida l'assolo dentro una voragine di epicità e liricità che ha pochi uguali. Scale velocissime ai limiti dello shredding ma incanalate dentro una linea melodica da paura che solo lui è stato in grado di gestire per così tanti anni senza ripetersi e assurgendo al ruolo di modello per schiere di aspiranti axemen.
Praticamente l'assolo definitivo dell'heavy metal dentro il disco definitivo dell'heavy metal.
Tutto questo mentre esplodeva la potenza restauratrice del grunge e si delineava sullo sfondo la rinascita del rock che partiva dalle delicatezze e dalle tristezze del mondo low-fi e dalle distorsioni sonore del mondo del feedback.
Sarebbe stato un gran bel decennio, quello dei novanta. Ma prima c'era bisogno di chiudere i conti del genere che aveva dominato il pianeta rock per tutti gli anni 80.
E i Judas Priest, fra i maestri del genere, si incaricarono di fare l'ultimo tiro da tre, mutuando un linguaggio da basket.
Alla prossima.
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