Osservando la sagoma turrita di Palazzo Madama, nobile edificio torinese posto al centro di piazza Castello, fulcro del potere sabaudo, torna alla mente la definizione di Guido Gozzano, “Casa dei secoli”. In effetti, non esiste altro edificio in città che, assommando una tale varietà di stili e tecniche costruttive, rispecchi nelle veste architettonica attuale il susseguirsi delle dominazioni che hanno plasmato il volto di Torino.
Le due torri a sedici lati svettanti dietro la facciata juvarriana, scampate alle riplasmazioni barocche, ci proiettano indietro nel tempo, agli albori delle vicende torinesi. Si materializza davanti a noi la figura di Annibale che nel 218 a.C. appiccò il fuoco all’antica Taurinum, piccola capitale dei celto-liguri Taurini, destinata a ricomparire nella storia ufficiale solo nel 28 a.C. con la deduzione della colonia romana. Nasce così la “città quadrata” con impianto urbanistico a maglie ortogonali e quatto imponenti porte urbiche, tanto maestose da riflettere l’immagine della Roma imperiale. Della porta orientale, detta “Praetoria”, pressoché identica alla Porta Palatina, sopravvivono le due torri, affioranti dalla balaustrata juvarriana.
Le tracce ancora visibili della “Porta Fibellona” ci conducono nel Medioevo: ecco che appare il marchese Guglielmo VII di Monferrato, signore di Torino tra il 1276 e il 1280, che diede l’avvio alla trasformazione della porta romana in primitiva fortificazione, chiudendo le quattro fornici romane, sostituite da un nuovo varco ricavato nelle mura, da cui il fabbricato prese il nome di “Castello di Porta Fibellona”. Il 1280 è l’anno della svolta: il destino della città si salda con le vicende della dinastia sabauda, prima con l’avvento del conte Tommaso III di Savoia che s’impadronisce di Torino e insedia il “vicario” nella fortezza, poi con il ramo dei Savoia-Acaia che, a seguito di una contesa successoria aperta nel 1285, si vede assegnare il governo di un terzo delle terre piemontesi, inclusa Torino. Filippo, il capostipite, pur esibendo il titolo “esotico” di principe d’Acaia, acquisito dal matrimonio con Isabella di Villehardouin, discendente d’una nobile famiglia cui era stata infeudata la regione del Peloponneso, non esercitò mai alcun potere effettivo sul territorio ellenico e rimase ben saldo in Piemonte, dove i successori promuoveranno la trasformazione del castello di Porta Fibellona da fortezza a residenza principesca, con il raddoppio della struttura verso il Po e la costruzione ad est di due torri identiche a quelle romane.
Il clima della Torino del tempo è rivelato da un dato architettonico: la bifrontalità del Castello, dotato di un doppio prospetto, l’uno rivolto verso il Po e l’altro verso l’odierna via Garibaldi, ci restituisce l’immagine dei Savoia, appena insediati in città, impegnati non solo a respingere i nemici esterni, ma anche a prevenire rivolte interne, fomentate da un’élite cittadina ancora diffidente. Lo attesta la “congiura degli Zucca e dei Silo”, ordita senza successo nel 1334 in funzione antisabauda con la complicità del marchese di Saluzzo. La facciata barocca ci trasporta più avanti nel tempo, quando Torino, divenuta sede della corte sabauda nel 1563, si accinge ad assumere la fisionomia d’una capitale, destinata a rappresentare, con la magnificenza delle architetture, il prestigio della dinastia dominante.
Aggirandosi tra le sale del Palazzo, si percepisce l’impronta delle due “Madame Reali” che lo scelsero come residenza privilegiata, adeguandola al gusto sei-settecentesco. Con Maria Cristina di Francia, Reggente del Ducato dal 1637, il Castello, ormai ribattezzato “Palazzo Madama”, assume una veste “regale”, in sintonia con il rango rivendicato dalla sua abitatrice, donna ambiziosa, che fece propria l’aspirazione dei Savoia al titolo regio, fondata sul matrimonio tra Ludovico di Savoia e Anna di Lusignano, figlia di Janus, re di Cipro e discendente dei re di Gerusalemme e Armenia. L’odierno prospetto occidentale riflette, però, l’autoritaria personalità della seconda Madama Reale, Maria Giovanna Battista di Savoia-Nemours, Reggente del Ducato a partire dal 1675 per conto del figlio, il futuro Vittorio Amedeo II, che chiamò a sé Filippo Juvarra, primo architetto regio dal 1714, conferendogli l’incarico di riplasmare il Palazzo.
Il genio juvarriano ideò una facciata monumentale, dalla “compostezza quasi classica”, che concepì, da un lato, come fondale scenografico di contrada Dora Grossa, attuale via Garibaldi, e, dall’altro lato, come “contenitore” dell’arioso scalone che raccorda l’atrio al primo piano in sostituzione della scomoda “scala a lumaga” preesistente. Il Palazzo è inserito al centro di una linea ideale e fisica tracciata da Filippo Juvarra che collega tre punti del territorio torinese dalle forti valenze simboliche: il colle di Superga, con la Basilica mariana adibita a sepolcreto dinastico, simboleggiante il riposo eterno; la collina morenica di Rivoli, sovrastata da un’imponente Reggia, che richiama l’idea di nascita e origine, dato che la dinastia s’era espansa in Piemonte attraverso la Valsusa; la zona del comando, imperniata su piazza Castello, cuore pulsante del potere sabaudo. Scampato al rischio di demolizione durante il regime napoleonico, Palazzo Madama ospitò dal 1848 il primo Senato Subalpino, poi il Senato italiano e, con il trasferimento della capitale, la Corte di Cassazione, che vi rimase sino al 1923. Attualmente accoglie le collezioni del Museo Civico d’Arte Antica.
Giunti al termine del viaggio e soffermandoci a rimirare l’edificio, riviviamo la meraviglia suscitata nei visitatori del passato dall’armoniosa imponenza del prospetto juvarriano, efficacemente espressa dallo scrittore tedesco Von Pöllnitz che nel 1731 lo definì “quanto c’è di più bello e perfetto in architettura moderna a Torino e forse in Europa”. Paolo Barosso
Neve su Palazzo Madama. Foto di Paolo Barosso