Magazine Cultura
di Valerio Bologna
Siamo stranieri, la nostra è la condizione di ospiti perenni della nostra città. Qui a Palermo non nasciamo, sbarchiamo come i poveri migranti dal mare. Viviamo in appartamenti o in ville ma siamo distanti da questa città alla stessa stregua di immigrati segregati nei centri d’accoglienza; non ci appartiene, non è terra nostra. In viale Regione lo stormo di lavavetri indiani aziona a intermittenza il semaforo di attraversamento pedonale per racimolare qualche spicciolo. Bloccano il traffico, creando lunghe serpentine, sequestrando la strada più importante per raggiungere la città e imboccare l’autostrada, percorsa da migliaia di veicoli. Succede ogni giorno, più volte al giorno, da tempo immemore e nella più assoluta impunità. Come se, a New York, i messicani bloccassero i ponti che conducono a Manhattan per vendere tacos agli automobilisti. Ettari della Favorita sono ostaggio di cani randagi che si muovono in branco. Sono zone che non si possono più attraversare senza il rischio di essere aggrediti. Rinunci a un pezzo del parco, ti diventa estraneo come un paese mediorientale che scegli di non visitare perché non sicuro. Porgiamo le chiavi dei nostri mezzi ai posteggiatori come se stessimo consegnando il passaporto a un doganiere. Piazze e arterie della città sono gestite da frotte di africani o palermitani che fanno segnali, ti indicano a colpi di fischietto dove e in che modo parcheggiare. Alla Cala tre generazioni di una stessa famiglia si assegnano il governo di una piazzetta e stanno lì, non in piedi e vigili, attenti come dovrebbero essere dei banditi a non essere presi alla sprovvista da uno sbirro fituso, ma stravaccati comodamente sulle loro sedie di plastica; non temono di dover fuggire alcuno. Ed è tutto normale, non fa una grinza, come se ci fossimo abituati ad attraversare la soglia di casa nostra solo dopo che un ospite, dai noi accolto, ci avesse concesso il permesso di accomodarci. Palermo è al di là dei nostri orizzonti di vita, è dall’altra parte di una frontiera tracciata nella nostra testa. Accettiamo di perderne un pezzo dopo l’altro, una città non più intera ma che esiste solo a macchia di leopardo. Berlino era semplice, divisa com’era in due parti; qui i muri si innalzano a decine, i confini si moltiplicano. Non la pronunciamo ad alta voce, lo facciamo senza neppure rendercene conto ma a poco a poco ci abituiamo, quando mettiamo piede fuori dalle nostre case, a domandare alla nostra città: “Posso entrare”?
Note1) Leggi il dossier di StupeFatti Blog sui migranti. Leggi pure: "Palermo in A" L'urlo di gioia nella città che affonda
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