venerdì 29 giugno 2012 di L'Abattoir
di Fabio Vento
Quarantamila persone al Palermo Pride 2012. Quarantamila colori che, a passo di musica, hanno sfidato il sole cocente del pomeriggio estivo. Venticinquemila più della prima edizione, appena due anni fa; ventimila più dell’anno scorso.
Palermo, la Palermo che arranca, la Palermo che sconta gli anni oscuri, tuona al richiamo della solidarietà. Più forte che altrove e se ancora dubiti è la coda dell’occhio che ti conforta: chi è fermo per strada sorride al corteo. Allora speri che di questa lezione ciascuno possa portarne a casa un pezzo.
Dieci anni fa tutto ciò era impensabile, oggi è realtà. Il pensiero si evolve, è vero. Ma una parte del merito, secondo me, va al modo in cui il Pride è stato costruito e comunicato nei segni, ricamando insieme due fili apparentemente sconnessi: unità e diversità.
Unità. In primo luogo, è passato efficacemente il concetto che il Pride non dovesse essere – come fu agli arbori in altre città – un evento “privato” di rivendicazione e visibilità della comunità LGBT, ma un vero e proprio corteo della città solidale. Perché in una società inclusiva, laica e fondata sulla solidarietà ogni tipo di discriminazione – per orientamento sessuale, per condizioni sociali, per colore della pelle – pertiene al rispetto degli stessi diritti umani: pertanto è un problema dell’intera comunità.
Molto saggia la decisione di coinvolgere associazioni, comitati, società civile e far precedere la manifestazione vera e propria da un ciclo di incontri – e quest’anno anche da un “Village” – dove le varie anime della città hanno potuto confrontarsi, osservarsi, convivere. E a livello di senso ha giovato la soppressione del prefisso storico “Gay”/”LGBT” nel titolo dell’evento a tutto vantaggio della nostra “Palermo”.
Diversità. Ma l’effetto di senso più profondo, a mio parere, sta in quell’asterisco che ormai da tre anni è il logo della manifestazione. Il suo significato più evidente, mutuato dal linguaggio informatico, è quello di “carattere jolly” e in questo contesto identifica le infinite possibilità del manifestarsi: per gusti, per orientamento sessuale, per identità di genere.
Con grande immediatezza il Palermo Pride si configura allora come rivendicazione non già di specifiche diversità (gay, lesbica, transgender) rispetto a una supposta norma, ma di ogni individuale diversità. Ma si va anche oltre.
La dimensione morfologica (l’immagine è speculare) e iconica (raffigura una stella da cui promanano raggi) del segno suggeriscono un’idea più profonda: che tutte le diversità, in ultimo, giochino su un piano paritario e facciano capo a un unico “centro”, quello della comune umanità.
Pertanto nessuna di esse è realmente “diversa” al punto da non poter dialogare e incontrare le altre.
Su queste coordinate si disegna anche l’evoluzione della campagna di comunicazione del Pride, dall’anno scorso ad oggi.
Se i manifesti di dodici mesi fa, curati da Ideadestroyingmuros, giocavano simpaticamente sulla provocazione, sull’impatto scenico, sulla curiosità per l’inconsueto, le immagini di quest’anno, a cura di Stefania Galegati Shines, raccontano semplicemente il fine ultimo del Pride: l’auspicata integrazione fra le diversità. Nessuno dei personaggi raffigurati ha posizioni di spicco, tutti riposano plasticamente sulla scena cittadina: in un certo senso è Palermo la vera protagonista, interpellata nella sua capacità di includere, di accogliere. Specialmente nei quartieri popolari, che fanno capolino in un paio di scatti: come ad esprimere la speranza che i legami di solidarietà che ne reggono il tessuto possano estendersi a chi oggi è ancora considerato “diverso”.
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