L’intero mondo piange ancora la morte di Madiba,Nelson Mandela, l’uomo che ha risollevato e riscattato la dignità razziale e sociale della sua gente, pagando con la propria reclusione per ben 27 anni, in nome del principio e della pratica della Non-violenza. Ad onor del vero e del giusto, bisogna, però, ricordare che anche la Palestina vive di fatto un vero e proprio regime di Apartheid ad opera di Israele.Pertanto, sulla stessa onda emotiva del lutto che stiamo vivendo in questi giorni, è doveroso parlarne e riportarne le testimonianze. Lo stesso Mandela ne aveva parlato ed affermata la totale illegalità della vicenda, nella lettera a T. L.Friedman, giornalista del New York Times.
Ebbene la popolazione palestinese è sottoposta quotidianamente ad una serie di violenze dirette ed indirette e soprusi, da parte non solo dell’esercito israeliano ma anche da parte dei coloni che vivono le loro terre e che inopinatamente si arrogano il diritto di proprietà delle terre palestinesi, esibendo come unico titolo, non un atto di acquisto, né un atto di successione ereditaria, ma la Bibbia. E’ scritto nelle Sacre Scritture e come tale è Verbo, sostengono.
Il territorio palestinese dal 1948 in poi è stato sempre più eroso e disgregato dall’occupazione militare israeliana, riducendolo a delle cellule territoriali difficilmente comunicanti tra di loro. L’Area C, ovvero il territorio sotto controllo civile e militare israeliano, è sempre più estesa, nonostante in alcuni casi ci sia lo stesso riconoscimento dell’invasore circa l’illegalità degli insediamenti colonici. Israele sta mettendo in atto una vera e propria politica di Apartheid, creando barricate e muri. Ed i Muri qui sono di ogni tipo. Quello di cui non si legge molto è, purtroppo, la strategia palestinese di non violenza e di certosina perseveranza nel non farsi annientare nella propria quotidianità, per quanto sia messa a dura prova con minacce, abbattimenti continui ed occupazioni arbitrarie di terreni. Ogni nuovo giorno può essere ricco di sorprese: la moschea di Mufaqarah anni fa, ad esempio, è stata abbattuta dall’esercito israeliano, ma la popolazione tutta l’ha con fatica rimessa in piedi, masso su masso. Quanto ci resterà e per quanto tempo la bandiera palestinese sventolerà sul minareto, nessuno lo sa. Così come non si sa la fatica dei contadini nel vedersi impediti a coltivare i propri orti, già terre aride, chiusi e recintati per impedirne l’accesso. Inoltre sono sempre più sfiancati dai continui controlli dei soldati, che li tengono arbitrariamente per ore bloccati ai checkpoint .E’ di pochi giorni la notizia di un giovane che è stato colpito ad una gamba da un proiettile mentre si accingeva a raccogliere le patate nel suo orto, posto al confine con i territori israeliani. Eppure gli accordi per cessate il fuoco del 21 novembre 2012 avevano stabilito che le forze militari israeliane dovessero” astenersi dal colpire i residenti nelle aree lungo il confine” e “cessare le ostilità nella Striscia di Gaza, via terra, mare e via aria, compreso le incursioni e le uccisioni.” Tuttavia ciò non accade, anzi, a partire dal giorno successivo al cessate il fuoco aerei militari hanno sorvolato costantemente il cielo della Striscia di Gaza, sette civili sono stati uccisi dalla fine dell’offensiva militare “Pilastro di Difesa” e più di 130 sono i feriti. Ed il tutto continua ad avvenire nel pieno silenzio internazionale. Per non parlare dell’ indecenza perpetrata dai coloni che divelgono rami carichi di frutti o sventrano ulivi secolari.
La vita dei palestinesi è tormentata in ogni suo aspetto. I bimbi per andare a scuola devono essere accompagnati e scortati dagli Ajaneb, i volontari dei vari organismi internazionali, e nei casi più gravi perfino dai soldati israeliani per tutelarli e difenderli dagli attacchi e minacce dei coloni. Uguale difficoltà hanno gli studenti universitari per le difficoltà a raggiungere i loro atenei. Le Università palestinesi, tipo quella di Betlemme o Birzeit, sono state sempre più isolate, sia per gli investimenti non effettuati che per l’uso della lingua araba che è stato molto limitato. La vita stessa, nelle dimore normali è quasi impossibile: pozzi a cui viene impedito il prelievo dell’acqua, controlli e raid notturni, confische,arresti, perquisizioni… E nonostante questo stillicidio la risposta della popolazione è quasi sempre non violenta, si cerca di porre rimedio a ciò che viene distrutto, lo si ricostruisce. Si accetta di pascolare il proprio gregge dove indicano i militari. Si rispettano gli ordini dati col sorriso, nonostante l’assurdità di essi. Emblematica è stata l’iniziativa di qualche giorno fa di piantare i fiori nei lacrimogeni che gli sono stati lanciati contro nel corso del tempo.
L’importante è, però, che tutto sia testimoniato, registrato. E’ l’unica arma che essi possiedono, contro cui la prepotenza israeliana nulla può fare. A far questo lavoro ci sono centinaia di volontari di Organismi Internazionali che relazionano, fotografano, riprendono in video perché si sappia e perché nessuno vi si possa opporre. Ma ciò che desta meraviglia è la massiccia presenza di volontari israeliani stessi che vengono in aiuto dei palestinesi. Essi sono per lo più esperti di diritto, molto documentati, che possono all’occorrenza segnalare ed intervenire per bloccare vari tipi di soprusi. Il loro intervento è di certo il più proficuo.
Tanto accade in Palestina. Ricordiamolo con le parole di Mandela:Il conflitto israelo-palestinese non è una questione di occupazione militare e Israele non è un paese che si sia stabilito “normalmente” e che, nel 1967, ha occupato un altro paese. I palestinesi non lottano per uno “stato”, ma per la libertà, l’indipendenza e l’uguaglianza, proprio come noi sudafricani…Israele non pensava ad uno “stato”, ma alla “separazione”. Il valore della separazione è misurato in termini di abilità, da parte di Israele, di mantenere ebreo lo stato ebreo, senza avere una minoranza palestinese che potrebbe divenire maggioranza nel futuro. Se questo avvenisse, Israele sarebbe costretto a diventare o una democrazia secolare o uno stato bi-azionale, o a trasformarsi in uno stato di apartheid non solo de facto, ma anche de jure.