Attivisti palestinesi, israeliani e internazionali protestano contro l’occupazione in Palestina
Filippine, Germania, Svizzera, Inghilterra, Francia, Colombia, Israele e ovviamente Palestina. Tutte queste nazioni unite da un unico slogan: one, two three, four, occupation no more. Inizia così la manifestazione che ogni venerdì vede marciare insieme attivisti palestinesi, israeliani e internazionali. Queste nuove forme di resistenza sono organizzate ogni settimana dal Pscc, Popular Struggle Coordination Comitee, in diversi villaggi della Palestina, come ad esempio Al Ma’asara, Bil’in, Nabi Saleh e Nil’in. L’obiettivo è quello di guidare la resistenza palestinese sul piano della non violenza, così da scardinare definitivamente il binomio palestinese-terrorista, che per anni ha caratterizzato la narrazione dei media mainstream occidentali. Inoltre, la partecipazione degli internazionali, ogni anno più numerosi, spesso anche più dei palestinesi, è un messaggio, per entrambe le parti in causa, che la comunità internazionale non è indifferente alle quotidiane violazioni che avvengono da parte di quella che ama definirsi come “unica democrazia del Medio Oriente”.
Sono bastati pochi rulli di tamburi e qualche slogan per far arrivare otto camionette dell’esercito con dentro una trentina di soldati. Il rapporto era di circa un militare per manifestante. Immediatamente hanno formato una sorta di muro umano, a quanto pare qui le barriere vanno davvero di moda, così da far spostare i manifestanti dalla Tequ Road, la strada che collega l’enorme insediamento di Efrat con quello di Neqodim, bloccando definitivamente l’entrata del paese. Il blocco non ha però fermato gli attivisti che hanno continuato a suonare e cantare. Tra le tante bandiere palestinesi che sventolavano davanti alle facce dei soldati c’era anche quella siriana, accompagnata da uno striscione con scritto: “Don’t attack Siria”. La situazione è precipitata quando le forze di polizia israeliane hanno arrestato il portavoce del Pscc. Alcuni manifestanti hanno anche cercato un confronto con i soldati ma, come avviene con i muri, non si è ottenuta nessuna risposta. Non sono autorizzati a parlare, a porsi domande e, forse, nemmeno a pensare.
Durante gli anni ’70 e ’80 la resistenza civile fu diretta ad impedire ulteriori confische dei territori palestinesi in seguito alla costruzione degli insediamenti israeliani fino all’introduzione della cosiddetta “detenzione amministrativa”, con la quale Israele si arroga definitivamente il diritto di privare i cittadini palestinesi della loro libertà individuale là dove sussistano ragioni di sicurezza nazionale. Secondo il filosofo e politologo statunitense, Gene Sharp, la prima Intifada fu caratterizzata essenzialmente da azioni non violente per circa l’85% della resistenza totale, consistenti principalmente in boicottaggi economici, esposizione di bandiere palestinesi, scioperi e funerali dimostrativi, conferendo direttamente alla popolazione la difesa della causa palestinese.
Da allora fino ad oggi la resistenza in Palestina ha sviluppato varie forme di azioni non violente, adattandole alle sempre più critiche condizioni dell’occupazione e alla comparsa di nuove tecnologie. Attualmente esistono forme di resistenza e boicottaggio non solo all’interno dei Territori Palestinesi, ma anche a livello internazionale, come ad esempio le varie campagne organizzate dalla BDS, ancora taciute e ignorate dalla maggior parte dei media, mentre non mancano le notizie relative, ad esempio, ai lanci di razzi provenienti da Gaza. In questo modo la lotta di Davide contro Golia, in cui Israele ribalta il suo ruolo storico, non si gioca solo sul piano delle armi, ma anche sul piano dell’informazione. E, come al solito, il silenzio è complice.