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Palline di Carta, un’innocente evasione

Da Trentinowine

A partire da oggi, Trentino Wine ospiterà una nuova rubrica: Palline di Carta. Uno spazio che raccoglierà  storie e racconti narrati da Patrizia Belli, una giornalista amica di questo blog. E da molti anni amica, e maestra, di Cosimo. A cui il Barone Rampante del vino trentino, deve, e lo riconosce qui pubblicamente per la prima volta, anche il suggerimento, che risale a tanti anni fa quando tutti eravamo più giovani e più ingenui, di questo nick name calviniano. Patrizia non si occuperà di vino e, per fortuna, non si lascerà trascinare nelle nostre enopolemiche quotidiane. E’ una promessa. Ci regalerà, periodicamente, una storia, una suggestione, un bagliore poetico. Insomma, Palline di Carta sarà un luogo letterario utile a smorzare i toni, spesso necessariamente grevi e puntuti, di questo black blog. Un’innocente, ma neanche tanto, evasione dalle nostre pippe enoiche.

Quel giorno in Iraq

buona
di Patrizia Belli – Forse invecchio. Da un po’ di tempo mi succede di volgere lo sguardo al passato, mi piace aprire la scatola dei ricordi, frugare nel passato. Gli amici dicono che è saggezza, io sostengo che è invecchiare. Che forse sono la stessa cosa. Ma trovo che sia un esercizio importante ricordare come eravamo. Non foss’altro che per cercare di trovare quella scintilla che rendeva tutto possibile. Sarà la recessione, sarà la stanchezza di parole abusate, sarà l’inquietudine per la farfallina tatuata di Belen fatto sta che oggi vorrei condurvi in un mio ricordo.

All’età di 12 o 13 anni vissi per alcuni mesi in Iraq, precisamente a Kirkuk. Siamo al nord in terra curda. Una terra da sempre lacerata dal conflitto per la rivendicazione di autonomia di Kirkuk reclamata come parte del Kurdistan. All’epoca ne sapevo poco di quella guerra, ma imparai presto. A insegnarmi fu la casa dove abitavamo. Una casetta di proprietà della multinazionale americana per cui mio padre lavorava. Muri alti 3 metri sormontati da cocci di vetro e filo spinato, inferiate alle finestre, lasciapassare americani e coprifuoco alla sera. Un giorno, stanca di una prigionia che non comprendevo, rubai il lungo vestito nero di una donna araba che veniva in casa e uscì. Dal terrazzo di casa da tempo osservavo la vita della città, i giochi di pallone dei ragazzini, la camminata frettolosa e dimessa delle donne, il forte vociare degli uomini con la loro camminata a gambe larghe, da padroni. Un piccolo bazar al crocevia di due strade mi incantava. Non so cosa sperassi di trovarvi, forse solo uno spicchio di rivendicazione d’una libertà che mi sembrava perduta in quella terra lontana. Naturalmente non sapevo una parola di arabo se non qualche stiracchiato e sicuramente pessimo “ciao” e “grazie”.

Scappai, intabarrata nella mantella nera e con qualche spicciolo in tasca. Arrivai in pochi attimi nel bazar. Fui immediatamente riconosciuta come europea e circondata dagli uomini del bazar che mi volevano vendere di tutto. Mi spaventai. Frettolosamente comprai una matita che portava i colori dell’arcobaleno. Riuscì a rientrare in casa dove nel frattempo la mia fuga era stata scoperta e aveva gettato mia madre nella più profonda disperazione, già mi immaginava rapita e segregata in un harem arabo. Naturalmente fui punita per la mia leggerezza, ma più di tutto oggi ricordo il viso contratto di Halima la donna araba che ci aiutava in casa. La donna a cui avevo rubato il mantello nero. Me lo tolse d’impeto, rossa in volto. A gesti e con violenza mi urlò “No!”. No, io non dovevo indossare il simbolo della prigionia delle donne, a me – ragazzina europea – era vietato giocarci. Halima ripudiata dal marito per avergli dato solo figlie femmine. Halima lo sguardo sempre basso e le mani rovinate dalla varechina. Halima che guardava i miei vestiti con disapprovazione. Halima che una volta mi chiese di poter toccare i miei capelli chiari. E la sua carezza fu lieve come il tocco di una madre. Oggi so tanto di lei e sorrido quando ascolto o leggo i discorsi concettuali sull’abaya (la mantella nera) o sul burqa. Lei non lo riteneva un simbolo di pudicizia, ma un puro e semplice obbligo e credeva di meritarsi tutto: le botte, la paura, l’indifferenza della famiglia e anche quell’odioso abito lungo nero. Lo credeva perché quello le era stato insegnato. Non vi era stata alcuna fonte di conoscenza a cui abbeverarsi, nessuna scuola ove apprendere, solo riti e tradizioni di sottomissione. Un destino segnato.

La mia piccola ribellione, il mio voler essere libera in quel paese, per lei era semplicemente inconcepibile, forse addirittura blasfemo. Io che ero baciata dalla fortuna, che per diritto di nascita ero crescita priva di tutti quei vincoli, avevo osato l’impensabile.

Halima, che se solo avesse avuto un’opportunità…

A distanza di tempo, una brava insegnante di Rovereto Elvira Zuin mi raccontò una storia che si lega al mio ricordo.

Una sua alunna araba, poche e smozzicate parole di italiano, un giorno rimase ammutolita nel corso di una lezione di scienze. Si parlava di genetica e di cromosomi X e Y, quelli da cui dipende il sesso dei nascituri e venne fuori che è l’uomo a determinarlo. La ragazzina era confusa. Da secoli nel suo paese la donna veniva incolpata per la nascita delle femmine, ma la scienza ora le diceva il contrario. Possibile? Possibile che tutto quel patire, quella schiavitù fosse dovuta solo a ignoranza?

C’è una morale alla fine di questo racconto. La conoscenza è libertà. Di più: la conoscenza è un’illuminazione.

Allora il mio augurio è che l’8 marzo sia questo: una luce di conoscenza che illumini il percorso delle tante donne ancora schiave di riti tribali, prigioniere dell’ignoranza. Ma che l’8 marzo sia anche una luce di conoscenza per le nostre giovani affinché sappiano quanta generosità, fede e solidarietà tra donne ci sono volute per arrivare all’oggi e quanto ancora ce ne voglia per non cadere nei cliché delle donne che antepongono l’apparire all’essere, il corpo alle idee.

di Patrizia Belli

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