Ci sono cose che non capisco e a cui nessuno dà la minima importanza. E quando faccio una domanda mi rispondono con frasi di circostanza tipo: “[...]Ti fai troppi problemi, non te ne fare più”
[CapaRezza - Cose che non capisco]
La cosa delle prefazioni
Siccome la lettura di Moby Dick mi stava trascinando in un tunnel verticale (mi sa che voi terrestri dite pozzo) di noia e odio nei confronti non tanto delle balene quanto di Melville Herman che sta lì a filosofeggiare anche su la zoologia marina e la baleneria (mestiere schifo) tanto far sembrare il romanzo una specie di antologia filosofico speculativa sui risvolti svolti, volti e divelti dell’umano esistere (e che due palle), allora mi son comprata due libri nuovi scelti uno seguendo lo scriteriato criterio “per autore”, l’altro con la rischiosissima tecnica della rabdomanzia.
Il primo è un libricino (stavolta cartaceo) di Paolo Nori, s’intitola La meravigliosa utilità del filo a piombo, sulla copertina c’è una cosa che l’ho guardata e ho pensato Toh, aLCHEMY (poi ho guardato la cover di aLCHEMY e mi son resa conto che i miei meccanismi di associazione mentale, per dirla elegantemente, seguono dei criteri elastici e piuttosto discutibili) ed è lì che mi implora silenziosamente leggimi leggimi e, ma io resisto perché già lo so che poi lo finisco subito e ci rimango male, perché già lo so che mi piace anche se ho letto solo le prime tre pagine e la terza di copertina dove c’è la vita dell’autore che recita così:
Paolo Nori che è nato a Parma nel 1963 e abita a Casalecchio di Reno, non sa mai cosa scrivere in queste note di copertina dove dovrebbe far finta di non essere lui e fare capire che è bravo, e intelligente, e modesto.
E onesto, direi.
E La meravigliosa utilità del filo a piombo è un libro senza prefazione. Già lo so che mi piace, già lo so.
La tecnica della rabdomanzia, invece, mi aveva condotta dritta dritta dall’ennesimo Murakami però stavolta mi son fermata e ho pensato Fermati Ilaria, vieni da una storia difficile con un libro difficile, una storia finita male fra l’altro, sai già che arrivata a pagina cinquanta, quando cominceranno a nascere cespugli di canguro selvatico avviluppati a pali della luce sottosopra ti chiederai perché perché perché ho comprato un altro Murakami e con veemenza te lo darai sul mignolo del piede per punirti, quindi fermati Ilaria, pensaci bene. Allora ho cambiato scaffale. A volte mi ubbidisco. Il secondo libro che ho comprato è On The Road di Jack Kerouac, nell’edizione “Il rotolo del 1951″ cioè quello scritto tra il 2 e il 22 aprile 1951
su una striscia di carta lunga 120 piedi, infilata nella macchina da scrivere e senza paragrafi, fatta srotolare sul pavimento e sembra proprio una strada
Centoventi piedi son circa quarantatrè metri, un palazzo di quattordici piani se ogni piano lo facciamo alto metri tre, ma io di queste cose non ci capisco niente anche se non è questa la cosa che non capisco che volevo dire, questa non la so, se me la spiegano poi magari la capisco. Perché sono brava, e intelligente, e modesta. E non è nemmeno il libro che non capisco. Il libro mi pare proprio bello, una strada di parole che è difficile interromperne la percorrenza perché è tuttadiseguito; il segnalibro non è altro che un confine sfumato tra quello che hai già letto, quello che leggerai e quello che non ti ricordi se l’hai letto già e quindi lo rileggi. Bello. Poi vedremo eh, pure Moby Dick all’inizio pensavo quanta poesia, quanta saggezza.
La cosa che non capisco è questa.
Nel libro ci sono CVI pagine di introduzioni, prefazioni eccetera. Centosei. Loro lo scrivono a numeri romani che sembra di meno. Centosei. Ammesso e non concesso che centosei pagine introduttive ad un romanzo di quarantatrè metri non siano eccessive, andiamo ad analizzarle più da vicino, ma con un esempio.
Mettiamo il caso che io scriva una cosa in cui racconto di alcune persone bizzarre che ho visto durante la mia vacanza e che il succo di questa cosa stia proprio nelle bizzarrìe delle persone bizzarre, raccontate in un crescendo di bizarrìa, partendo dalla famiglia Allegria che quando entravano facevano lo stesso effetto dei dissennatori e arrivando a quella pettinata come la moglie di Frankenstein, già menzionata precedentemente nella cosa che scriverei, senza però specificare questo particolare dei capelli per tenerlo nel finale come effetto sorpresa (non la scrivo poi ‘sta cosa, non temete). Mettiamo il caso che la prefazione a questa cosa che ho scritto io, dopo aver indugiato su particolari curiosi della mia breve esistenza, senza dubbio alcuno utili per la comprensione dell’opera, prosegua così: l’effetto straniamento in seguito alla scoperta che l’acconciatura della signora — è in realtà quella della moglie di Frankenstein eccetera eccetera.
Disappunto.
Qualcuno mi ha detto che le prefazioni vanno lette (casomai) dopo aver letto il libro. Sempre.
Quello che non capisco, allora, è perché non le mettano alla fine dei libri come postfazioni, evitando a me di dover saltare centosei pagine facendomi sentire un’imbrogliona che comincia i libri dalla metà. Fossero alla fine le leggerei anche.
Forse.
Piesse: a proposito di libri che già lo so che mi piacciono, già lo so, è uscito il nuovo libro di Simone Rossi
suonatore di clarini e chitarrini, scrittore e gran brava persona
sia in versione cartacea che in versione elttronica gratuita per Barabba Edizioni (santisubito tutti i Barabbisti). S’intitola croccantissima e se vi ho messo un po’ di curiosità i dettagli li trovate qui.