Palmira appare come un’oasi nel mezzo al niente del deserto siriano. Ma la sensazione del niente che circonda il visitatore è quanto mai illusoria, poiché esso è costellato da siti archeologici di una bellezza sorprendente.
Era il 9 agosto 2008. Il pullman che trasportava il gruppo di cui facevo parte aveva viaggiato per tutto il giorno lungo una strada spolverata da sabbia finissima. Nella mattinata avevamo sostato sulle sponde piacevoli del lago Al-Assad sull’Eufrate, nel nord del Paese. Nel pomeriggio avevamo esplorato le rovine di Sergiopoli e in seguito ci eravamo inoltrati tra le mura incantate di Qasr al-Heir ash-Sharqi. Cinquantadue gradi, il sole impietoso a picco, sembrava di respirare nella bocca di un forno a legna: la sete impastava la gola, infiammava le vie aeree. Arrivammo sfiniti a Tadmor, moderna cittadina sorta in prossimità di Palmira, che la luce breve del crepuscolo si era già spenta. L’hotel che trovammo ad accoglierci si rivelò poco più che una locanda economica: le stanze erano pulite - cosa rara nel Vicino Oriente - ma piccole e l’aria condizionata pareva un aereo al decollo. Cenammo però al fresco di un ristorante al margine dell’abitato, sotto la tenda di un giardino circondato da palme, ricevuti con sorrisi ospitali tra musiche e danze.
Il giorno successivo, di buon’ora, cominciammo la visita di Palmira, sito che risale al II secolo dopo Cristo e occupa una superficie vasta cinquanta ettari. I raggi del sole carezzavano le pietre antiche con una delicata luce rosa che spiccava in un cielo di pallido azzurro. Fin dal II millennio questo era un luogo di tappa obbligato per le carovane che dal Mediterraneo conducevano in Mesopotamia. La città delle palme, come suggerisce il nome romano, situata in un territorio ai tempi fertile e verdeggiante. La regina ribelle Zenobia condusse una guerra di breve gloria contro Aureliano (siamo nel III secolo d.C.), poi la fama di Palmira declinò: cadde in mani musulmane e, da quel momento, scomparve dalle pagine della storia. Fu riscoperta solo nel 1700, per opera di intrepidi esploratori che si avventuravano nel deserto dopo essere partiti da Damasco, e agli inizi del Novecento vennero organizzate le prime campagne di scavo e di restauro.
Il Santuario di Bel è la struttura più imponente e (fino alla guerra civile cominciata nel 2011) una delle meglio conservate. Spettacolare appare il grande colonnato che fiancheggia l’arteria principale dell’antica città, al centro della quale si erge un possente arco monumentale. Sul lato meridionale si trova il magnifico teatro romano, forse il più bello del Vicino Oriente: era stato finemente restaurato, ora sembra abbia riportato danni notevoli. E poi il piccolo tempio di Baal Shamin, un gioiello architettonico. Poco distante il Campo di Diocleziano con il Tempio dei Canoni, dalla cui altura si gode un panorama lunare. Più lontana la Valle delle Tombe e, arroccato fieramente su una collina, Qala’at Ibn Maan, il castello saraceno sul quale il tramonto getta ombre spettrali.
Mi rendo conto che, rievocando le meraviglie di Palmira, sono incerto se usare l’indicativo presente o l’imperfetto. Questo prezioso sito archeologico ha subito distruzioni considerevoli negli ultimi anni e adesso viene preso di mira dalla barbarie iconoclasta dell'Isis. Nei pressi esiste una base dell’aviazione militare e i caccia governativi hanno spesso bombardato le posizioni dei ribelli rintanati tra le rovine. La stessa sorte capitata a Krak des Chevaliers e, probabilmente, alla Basilica di San Simeone nei pressi di Aleppo (dove un video recente riprende alcune donne armate compiere esercitazioni). Patrimoni protetti dall’Unesco in questa parte di mondo, essi costituiscono beni che appartengono all’intera umanità. Ogni opera d’arte, infatti, rimanda non solo alla comunità o alla cultura di appartenenza ma anche alla consapevolezza dell’essere sé che ciascuna persona umana ha. Perderle (che siano i Buddha di Bamiyan, le mura di Ninive o gli edifici di Palmira) significa anche veder cancellata una parte fondamentale della nostra identità individuale e sociale. Forse è proprio questo lo scopo ultimo del fondamentalismo islamico, al quale dobbiamo opporci con energia ben superiore a quella finora mostrata.
(Fotografie scattate il 10 agosto 2008)