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PAN di Joe Wright (2015)

Creato il 11 novembre 2015 da Ifilms
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Scritto da Giuseppe Paternò di Raddusa
Categoria principale: Le nostre recensioni
Categoria: Recensioni film in sala
Pubblicato: 11 Novembre 2015
Joe Wright  

pan

Va detto: Joe Wright è un bravo regista. C’è invece chi lo ritiene un compilatore, un competente artigiano senza troppa anima. A torto, poiché la sua Anna Karenina è con tutta probabilità la riduzione più ambiziosa, immaginifica e riuscita del romanzo di Tolstoj. E perché Espiazione e Orgoglio e pregiudizio, al netto delle ingenerose critiche ricevute, sono due opere fragranti e virtuose. Ci sarebbe da ridire qualcosa in più su Hanna, lontano da ogni vincolo letterario, e sul biografico The Soloist: irrisolti e frammentari, ma paradigmatici del laborioso talento del suo creatore, sempre disposto a modellare nuove forme per le sue intuizioni, a volte riuscite, a volte derivative, a volte indifendibili.

E allora cosa succede con Pan? Poco, a voler essere onesti. Il suo prequel alle immortali avventure dell’iconico Peter forgiato dalla penna di J.M. Barrie è un’opera senza geometrie, di anonima fattura e sciatta nella confezione. Wright dirige in maniera distratta un’opera da 150 milioni di dollari di budget che, clamorosamente, non ha un’intuizione-una che non sia ficcare testi dei Ramones o dei Nirvana lanciati lì, a mo’ di provocazione. Ma provocazione per chi? Infarcire una storia di buoni sentimenti, poi, è pernicioso: a risentirne è la credibilità di un’operazione ambiziosa come questa, che fallisce su tutti i fronti. Sull’opera grava l’infelicità di alcune scelte – a partire dall’ambientazione durante la Seconda Guerra Mondiale – che trovano zenit imbarazzante nel rapporto tra il piccolo protagonista e la madre-guerriera (sic!).

Ogni elemento presente è scardinato, confuso, abbozzato. Tutto è drammaticamente privo d’ironia: se non fosse per il talento petulante del protagonista, la rivelazione Levi Miller, il baraccone si scioglierebbe con maggiore rapidità. Capi d’imputazione: la vocazione all’infanzia perenne, cardine dell’opera di Barrie e delle tante riduzioni conseguitene, è qui praticamente assente. Appare un Uncino giovane e pre-crudeltà, cui viene smussata ogni ipotesi di mefistofelica ambiguità. C’è un villain, Barbarossa (Hugh Jackman), di notevole fiacchezza, incapace di far paura anche in una sola inquadratura. A fare l’elenco delle differenze, e a lamentare la violenza con cui Wright agisce su un personaggio così scolpito nell’immaginario collettivo – pur se con traiettorie estetiche del tutto diverse – è troppo facile, però. Ci si arrabbia, soprattutto, perché il regista – in collaborazione con lo sceneggiatore Jason Fuchs – tratteggi tutto con dissodante pigrizia, con malmostosa placidità. Come fosse un obbligo. E obbligati alla visione non si saranno di certo sentiti gli spettatori: il film è stato un disastro ai botteghini di tutto il mondo. E chi ha da sempre criticato Hook di Spielberg si sente già un po’ in colpa.

Voto:1,5/4


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