“Avevo capito che solo vivendo il coraggio della mia diversità rispetto a quell ’uomo tarchiato avrei potuto condurre un interrogatorio professionale e sentirmi finalmente un giudice”.
Sta tutta in questa frase, tratta dal suo libro e intitolato “La Giudice – una donna in magistratura”, edito da Ghena, la storia di Paola Di Nicola, nata in un piccolo centro in provincia di Ascoli Piceno nel ’66, che di professione fa, appunto, il magistrato giudicante.
Tre righe, che raccontano quanto faticoso sia stato il suo percorso, sia come donna che vuole affermarsi in un ambito per tanti decenni riservato agli uomini – (La Costituzione del ’48 sancisce il principio di uguaglianza, ma ipocritamente è silente sull’accesso delle donne in magistratura), sia come figlia di un magistrato.
Eppure, la giudice, tosta, si affretta a chiarire: “La mia storia speciale? E’ quella di milioni di donne, non ha niente di straordinario. Per questo forse può ritenersi speciale. Come tutte le altre donne ho dovuto scegliere giorno dopo giorno. Ogni scelta è una rinuncia a ciò che non si è scelto”.Parliamone con Paola, che sul biglietto da visita ha fatto stampare la consonante e la vocale, l’articolo determinativo femminile, utile ad identificare la sua persona fisica: la giudice.
Ha voluto fare la giudice, perché suo padre è magistrato?
Ho voluto far la giudice non semplicemente perché mio padre fosse magistrato, ma per come lo fosse. Mio padre è stato un magistrato antiterrorismo quando io avevo 12-13 anni. Aveva la scorta armata, composta da carabinieri più giovani delle mie sorelle e ogni giorno temevo di perderlo, ascoltando un telegiornale in bianco e nero. Mio padre ha avuto e ha una dirittura morale, che mi ha segnata. Lavorava per quindici ore ogni giorno tutti i giorni compresi le domeniche e i periodi di Natale. Aveva dato incarico al portiere di restituire tutto ciò che era destinato a lui, da chiunque provenisse. Con mia madre ha sempre vissuto in periferia in una piccola casa in affitto e ha avuto sempre coraggio, tanto coraggio rispetto ai capi dei suoi uffici, quando erano porti delle nebbie e quando è stato lui stesso capo della Procura di Pescara e poi di Bologna. Questo è l’esempio che mi ha segnata ed è valso per me più di qualsiasi altro.
Quanto portare il suo cognome l’ha favorita?
Mi ha profondamente favorita moralmente e umanamente, perché mi ha consentito di conoscere la magistratura migliore, quella che non conosce i salotti buoni, quella che lavora quotidianamente e con rigore senza avere mezzi, se non la propria intelligenza e la propria preparazione, quella che gira per le scuole a parlare della Costituzione italiana, quella che crede fermamente nelle Istituzioni del nostro Paese e le fa funzionare senza mai guardare l’orologio e con generosità.
Leggendo il suo libro, viene fuori la grande difficoltà che ha dovuto superare: differenziarsi da suo padre. Lei ha sempre voluto essere la giudice. Ma non è stato per niente facile. Anche perché, per raggiungere questo obiettivo. ha sacrificato un po’ la sua vita privata. Alludo ai suoi figli, alla loro prima infanzia. E’ così?
La mia storia è quella di milioni di donne, non ha niente di speciale per questo forse può ritenersi speciale. Come tutte le altre donne ho dovuto scegliere giorno dopo giorno. Ogni scelta è una rinuncia a ciò che non si è scelto. Per il mio lavoro, per il mio impegno, per svolgere la mia attività di giudice con rigore, studiando e approfondendo, ho molto faticato mentalmente e fisicamente, perseguitata, come ogni donna, dai sensi di colpa. Mi sono sempre chiesta: faccio la cosa giusta? Mio figlio a quattro mesi viaggiava con me da Roma a Sant’Angelo dei Lombardi e subito ha imparato ad aspettare ed aspettarmi. Come le mie sorelle, le mie colleghe e le mie amiche ho rinunciato a vedere la recita di fine anno dei mie figli, perché l’udienza proseguiva come un fiume in piena, ho visto passare come un treno in corsa le prime parole storpiate dei bambini, perché non c’ero mai quando le pronunciavano.
Le è mai capitato di parlare con loro di questo?
Certo che ne ho parlato, glielo dicevo anche mentre li allattavo! Spiegavo loro, ma più che altro a me, che il fatto che non ci fossi non significava che non li amassi o non li pensassi, ma che lavoravo come faceva il loro papà e come avevano fatto i loro nonni e come un giorno avrebbero fatto loro, per contribuire alla costruzione di un Paese serio e responsabile. Li ho sempre portati, da piccolissimi, a conoscere dove lavoravo, facendo vedere dove avevo le loro foto, dove tenevo udienza, quale era la mia sedia, così rendendo loro familiare il posto che teneva la loro mamma lontana.
La sua giornata tipo a quell’ epoca?
La mia giornata tipo era: alzarmi presto, preparare la colazione per i bambini, svegliarli e chiedere subito di non fare capricci, perché c’era poco tempo e dovevo andare a lavorare! Lasciarli alle 7 e un quarto alla baby sitter, perché li portasse a scuola, correre in motorino a prendere il treno per Latina delle 7 e 29, pieno di pendolari e per questo senza posti a sedere. Arrivare alla stazione di Latina (a 15 km dalla città), prendere una macchinetta mezza rotta, comprata solo per fare il tragitto per il Tribunale e lì cominciare l’udienza con 40 processi. Finire nel tardo pomeriggio, senza avere mangiato, caricare la valigia di sentenze da scrivere, rifare il percorso all’indietro, tornare a casa verso le 19, trovare i bimbi che volevano finire i compiti con me. Togliermi solo le scarpe e dedicarmi a loro, ascoltarli, consolarli, cenare e infine addormentarli, raccontando loro la favola della sera. In quel periodo, se non ci fosse stata Gemma a tenere i miei figli come i suoi e con i suoi, sempre con il sorriso e la gioia di vivere, non ce l’avrei mai fatta.
Ci sono stati momenti in cui ha desiderato mollare e qual è stato il periodo peggiore?
E’ stato difficile, come per tutte le donne, il periodo in cui i bimbi erano piccoli, anche perché ero separata e lavoravo in un’altra regione, sempre con i treni presi di corsa. Sono anni, di cui non vedi la fine e quando la fine arriva, senti che hai perso una parte irripetibile di te e della crescita dei tuoi figli, che nessuno ti restituirà. Ma lo hai scelto e lo hai voluto, non devi farti annullare dai sensi di colpa e dal senso di perdita, devi pensare sempre in positivo, che era giusto così innanzitutto per te stessa, per quanto hai investito in termini di risorse e fatica intellettuale e che è per quello che sei riuscita a costruire.
Nelle prime pagine, lei riporta il suo primo interrogatorio, quello con il boss Gennaro. Un tipo molto arrogante, che tentava di far leva sul suo essere mamma e moglie. A distanza di anni può dire che le cose siano cambiate e che ci sia più rispetto per le donne magistrato?
Non credo si tratti di rispetto, anche perché ormai da anni siamo in grandi numeri dentro gli uffici giudiziari e le persone sono abituate. Credo piuttosto che ci sia un pregiudizio culturale verso le donne, che è duro da estirpare ed è fatto da sguardi, silenzi, atteggiamenti, battute. Le donne non hanno mai esercitato potere nelle società occidentali. Il mondo dell’interpretazione e del diritto è stato loro precluso per 2000 anni e non bastano due decenni per modificare un atteggiamento, innanzitutto culturale, che di certo si muove anche dentro noi stesse. Gennaro ne è il paradigma.
Vuole dire che c’è ancora chi crede che la donna non possa fare serenamente il giudice, perché “per natura” istintiva, collerica e in certi giorni, volubile? Ma questo succede più al Sud?
Non c’è latitudine geografica per il pregiudizio, è l’unico ad essere capace di investire e travolgere al di là di qualsiasi barriera, anche sociale. Le battute sulle donne, sui giudici donna, sui politici donna, eccetera, le fanno tutti, senza distinzione.
Quanta solidarietà c’è tra donne magistrato?
Viviamo la stessa esperienza di ambivalenza, ma non ne parliamo. Tra colleghe e colleghi, al di là dell’appartenenza di genere, ci si aiuta, ci si sostiene, ci si confida sulla fatica, specialmente se c’è amicizia.
In Francia, e in altri Stati, la carriera delle donne giudice è forse più agevole. Perché non ha mai pensato di trasferirsi all’estero?
Il nostro è un lavoro che è definito, per lo più, dai confini nazionali. Quindi è difficile praticare esperienze continuative all’estero. Io poi amo molto il mio Paese e il lavoro che faccio, lo faccio proprio perché ho giurato fedeltà alla Costituzione e alle leggi dello Stato. Voglio dare tutto il mio impegno professionale e umano al mio Paese, che da magistrato mi consente, diversamente da quello che avviene altrove, di essere autonoma ed indipendente da altri poteri. E la giurisdizione si può esercitare solo se si è lontani da interferenze politiche o da pressioni di gruppi di potere più o meno occulti.
Nel suo libro c’è scritto che le donne magistrato nel 2012 sono 4006, il 46 per cento dei magistrati italiani. Non poche. Negli ultimi anni le donne hanno acquisito maggiore consapevolezza della propria dignità e del proprio valore? Ma una volta salite sullo scranno sono state in grado di tutelare la propria differenza e di elevarla a valore?
Siamo prepotentemente entrate in magistratura senza sapere che ci fosse stata preclusa, perché donne. C’è un deficit di memoria storica, che non ci ha permesso di capire da dove venissimo e come ci fossimo arrivate. Questo non ha consentito un lavoro culturale indirizzato a comprendere la nostra differenza che, invece c’è, quantomeno per il fatto che siamo state escluse per 2000 anni di storia dalla giurisdizione. E questo non può non lasciare traccia. Bisogna approfondirlo, capirlo, studiarlo e tirarne le fila.
Ci spiega come e dove scrive una sentenza? Ho letto a pagina 148 che quello è il momento in cui dimentica di essere stata costretta come donna a restare a guardare dal buco della serratura la vita degli altri. Cosa vuole dire?
Scrivere la sentenza è un momento molto importante. Si attraversa la vita di una persona e la si segna in modo indelebile. Finora le donne non lo potevano fare, perché ritenute “inadatte intellettivamente”. Per questo ho scritto che si era costrette a guardare dal buco della serratura la storia che andava avanti. Quando scrivo mi concentro ovunque mi trovi. E’ una capacità che ho ereditato da mio padre e ho affinato nel tempo con i bambini. Può accadere qualsiasi cosa e non me ne accorgo proprio. Lavoro in camera da letto e sento l’eco dei figli che studiano ripetendo ad alta voce e scherzano tra loro o con gli amici e questo mi dà la serenità giusta per scrivere. Spesso non ho dormito per vicende processuali difficili, per casi umani complicati. Si chiamano coscienza e responsabilità.
Ha mai avuto sensi di colpa, ha commesso errori e come ha rimediato?
Certamente, avrò commesso errori, come chiunque di noi, ma mai per sciatteria o superficialità. Quando me ne sono accorta ho sempre fatto tutto quello che potevo per correggerli, scrivendolo e assumendomene la responsabilità. Ritengo gravissimo che si persista in un errore solo per non mostrare di averlo fatto. Specie per un magistrato.
C’è una persona che ha dovuto giudicare e che non scorderà mai?
Non solo una, moltissime. Vivo ogni giorno casi umani drammatici. Molti di loro non li scorderò mai. Molti reati sono commessi per la disperazione, il degrado sociale, il disagio psichico, la disgregazione culturale. Se lo Stato funzionasse in tutte le su propaggini molti reati non verrebbero commessi e il crimine si potrebbe prevenire.
Ho letto che agli inizi si lasciava prendere da una specie di sindrome della giustificazione continua. Ora?
No, nessuna sindrome. Solo l’individuazione, mai la giustificazione, delle motivazioni umane che spingono a determinati delitti. Io non sono Catone il censore o un sacerdote che assolve dai peccati. Io sono un magistrato, anzi una magistrata, che applica la legge e per questo ho bisogno di capire sempre il contesto. Da questa esigenza non si deve mai prescindere per fare bene il nostro lavoro e non attestarsi su modi burocratici.
Come si “premia” dopo aver emanato una sentenza?
In nessun modo, perché provo solo una infinita fatica e spossatezza.
Sotto la pettina della mamma indossa sempre una collana di perle? E quando si presenta in udienza lo fa truccata, con i tacchi? E ai colloqui, indossa ancora qualche volta la camicetta a fiorellini, come fece quella volta in cui interrogò Gennaro?
La collana la porto, ma ne ho anche altre, che uso di più, perché mi piacciono i colori! Le indosso sempre sotto la pettina di mia madre. Io mi vesto e mi trucco con molta semplicità, i tacchi non sono alti, perché li devo tenere una giornata intera e la camicetta di mia sorella continuo ad indossarla, perché sembra sempre nuova!
Scrive che dopo tanti anni ha ritrovato tutti i suoi sensi. Ci spiega in due parole cosa vuole dire?
I sensi sono il modo in cui viviamo nella realtà e ne aspiriamo l’essenza. Spesso non li usiamo, perché andiamo troppo veloci. La mia ricerca dei sensi è la ricerca di una nuova dimensione nella mia attività, che non nasconda il mio essere donna, con una storia millennaria e personale sulle spalle, sotto una toga nera, ma la faccia cautamente affiorare nei momenti importanti.
Forse con una maggiore sensibilità e creatività? Un messaggio alle donne, che seguono questo blog e che vorrebbero intraprendere la sua strada?
A chi mi legge dico di farsi travolgere dalla forza e dal coraggio, che hanno le donne, lasciando da parte la gabbia dei sensi di colpa e del timore – solo femminile – di non farcela. A chi vuole fare il magistrato dico che è l’attività professionale più straordinaria che una persona possa intraprendere
Uno a sua figlia Silvia?
Le auguro di provare sempre il gusto di appartenere ad un genere che non ha mai smesso di combattere e che ogni giorno mostra la sua straordinaria forza e ricchezza su infiniti fronti
Si sente una tipa tosta?
Veramente no !
Cinzia Ficco
Chi è Paola Di Nicola
Giudice presso il Tribunale penale di Roma. dal settembre 2010. Si è occupata precedentemente di diritto civile, penale e del lavoro come Pretore, presso la Pretura di Sant’Angelo dei Lombardi. E’ stata giudice del Tribunale di Latina nelle materie civili, delle esecuzioni immobiliari e penali. Negli anni 2009 e 2010 ha presieduto il Collegio, appositamente costituito presso il Tribunale di Napoli, per l’emergenza rifiuti in Campania. Si è occupata inoltre della formazione dei magistrati del Lazio.