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Paola Silvia Dolci, “Amiral Bragueton”: una recensione di Lisa Orlando

Creato il 15 luglio 2015 da Criticaimpura @CriticaImpura
Paola Silvia Dolci, Paola Silvia Dolci, “Amiral Bragueton”, Italic Pequod 2013

Di LISA ORLANDO

[Bragueton, illuminato dalle luci della strada,

Duplicarsi, moltiplicarsi in cose numerose.

Sei (Else) dentro di me come un caso.

Ben oltre gli Urali]

Quando parliamo, voce, espressione, intonazione, arrotondano le nostre parole, e ne consolidano la debolezza, attribuendo loro un carattere, scrive Virginia Woolf. Tuttavia, la penna è un attrezzo rigido, può dire molto poco, possiede tutto un insieme di manie e celebrazioni proprie. E’ anche dittatoriale, muta assiduamente uomini qualunque in profeti. Per questo, Paola Silvia Dolci, spicca nella legione dei poeti con un’autenticità tanto irreprimibile. Mai per un istante possiamo diffidare che la poesia sia ella stessa; categoricamente, si rifiuta di insegnare, si rifiuta di predicare. I suoi sforzi sono tesi a mettersi per iscritto (con stoicità), a dire la verità – a ”rompe[rsi] il cuore”? a intraprendere la strada più ripida e accidentata? Poiché oltre alla complessità del “dirsi”, c’è la suprema difficoltà di essere se stessi, mentre “la gente continua a prender[ci] per altro”.

Amiral Bragueton, ultima collezione di poesie di Paola Silvia Dolci,  italic, 2013 (ispirata dal nome della nave di Céline), è, innanzitutto, un lungo viaggio nei meandri dell’anima e della vita stessa – verso l’”Africa più vera?” –, che mai, tuttavia, si conclude, perché mai volto al possesso d’una certezza – ché viaggio è movimento; accettazione di mutabilità? Pertanto (prima indicazione per il lettore), l’impostazione del senso d’ogni verso implicherà numerosi movimenti cognitivi da eseguire; in primo luogo: un’immaginazione relazionale e la comprensione di un procedimento (in versi) discontinuo.

Ora, tiriamo su l’àncora dal fondo del mare e salpiamo per l’infanzia che, per quanto possa essere piena di sogni, qui pare essere già apportatrice di profondo dolore:

Il rischio era fare la bambina malata a vita. / Ricevere gli amici in pigiama nel lettone, sonnecchiare, restare esclusa. / Ti fossi almeno seduta al tavolo! / Durante il digiuno il suo corpo diminuiva, le tonsille si scioglievano, la lingua / diventava bianca, perdeva gocce di latte. / E le mani di tua madre come topi in tavola.

E:

Sono figlio delle estati della mia infanzia. / Esco, sul ponte a guardare le stelle: il cielo è bianco. / Mia madre è sdraiata su un divano. / Dice che devo fare l’amore con lei, / che vorrebbe farlo a ogni ora. / Mi sento male. / Rifiuto. / Prende un coltello e mi uccide.

Certamente, nel leggere i versi di Paola Silvia Dolci non nasce voglia alcuna di analizzare quel che sentiamo di tanto ampio e profondamente umano. Tuttavia, se consideriamo alcune di queste poesie/ritratto più da vicino, troveremo che sono tutti ritratti di una donna che ha compiuto (e compie) la sua lotta per la vita (e pur con un’inestirpabile istinto di maschio; è per tal motivo che alcuni versi sono duri come radici ma impalpabili  come foschia sul mare?) e in atto di rientrare con un brivido tra le braccia dell’amore (o del sogno di esso?) come se qui fosse possibile trovare, alle volte, godimento – delizia?

I sentimenti sono in me come quando ero bambino / e mia madre e mio padre si confondevano / le figure. Non so distinguere. / Tuttavia sto mangiando una mela e immagino sia la tua bocca.

E:

Amore, regalami il latte che scorre di Veermer…

Come soliloqui solitari le poesie di Paola Silvia Dolci? E’ per questo che in Amiral  Bragueton si ha la sensazione di star silenziosamente in ascolto dietro porte da cui si odono solo mormorii, sospiri? E’ che l’autrice sa creare in noi l’attesa dei ritmi, delle visioni, e delle intuizioni della poesia. Ma pur, abilmente, è capace di  strattonarci e quasi veniamo svegliati da quell’estasi di pieno consenso in cui si manifesta il nostro soggiacere alla potente immaginazione di questa eccelsa autrice:

Amore! Attenzione! /  La torre di fortificazione Staroměstská Věž / all’ingresso occidentale di Ponte Carlo ha effettuato il decollo.

E:

Se non sopporti che io goda, vattene. / Il mio albergo è un aeroplano in pose di volo, / i pugili si allenano nel parco…

E:

Nemmeno fottendo riesco a farmi toccare amore…

Luogo di delizia? di conflitto? di ali tese per il volo, luogo in cui scomparire? sognare? potenziarsi l’esistenza?; cos’è, dunque, amore? Si può supporre che Paola Silvia Dolci abbia esteso (in tal senso) il suo interesse, e al punto da drammatizzare alcuni versi:

Else, non stringere, molla. / Ricarica e spara.

O:

Else! Ti appendo per le tonsille! / Else, aiutami, / mi sembra di diventare reale. / Dietro la macchina fotografica ci sono (le stelle).

E ancora:

Le tue relazioni, Else, non iniziavano mai davvero. / E il dottore ti chiamava funanbolo, / invece eri la cavallerizza Sofarewell, / Angelo con un’ala sola, / eroe tragicomico che non riusciva a volare.

Eppure, questo “angelo con un’ala sola”, che sogna “di un dottore che va in cerca sempre della stessa malattia”, che “usa un bicchiere di cognac” “come cappotto”, e “la scrittura come sua sostituta” , questo angelo, ha l’arte di dire cose che penetrano senza sforzo nella nostra mente per rimanere lì e schiudersi come quei fiori giapponesi che sbocciano sott’acqua.

Prendere aerei per “incontrare creature del vento”, mentre “la collera dell’infanzia non si attenua”, e la vita diventa (solo) lettura; senza creare conflitto tra il punto di vista umano e quello estetico, Paola Silvia Dolci ci ha permesso di penetrare nella sua intimità? cadere sul suo inginocchiatoio? Possiamo solo fidarci del nostro istinto. Quel che sappiamo con certezza è che l’autrice è partita sull’Amiral Bragueton per adattare la propria sensibilità a una condizione in cui le sue capacità potessero esprimersi pienamente. Ed è esattamente quanto un libro ci colpisce come la conseguenza di questa felice disposizione, più che per la sua malìa, o bellezza, che intravediamo in esso il germe di una durevole esistenza.

“Come se questa intimità ci costasse la pelle”

Cremona, 12 febbraio 2012

Dolcissimo amore mio,
questa scrittura è la mia sostituta.
Vorrei passeggiare per la tua città
in orari diversi dai tuoi.
Ieri sera bevevo vino nel foyer
e cercavo se mi stessi guardando.
Poi, mentre la Marinelli recitava
– quando Apollo ti sputa in bocca
e – venne Achille la Bestia
mi sarei alzata e ti avrei raggiunto al buio
per baciarti di nascosto.

Inizio sempre a parlare quando bisogna salutarsi.

Per disfarmi del dolore ho dieci minuti.

*

Cabinet Vert.

Se non sopporti che io goda, vattene.

Il mio albergo è un aeroplano in pose di volo,

i pugili si allenano nel parco.

L’anno scorso dicembre mi faceva i lividi col freddo.

Oggi Else fotografata dai tigli,

sviluppata dal vento che punge la Sadovaja.

Da qui partono tutte le mie rivoluzioni;

morirò prestissimo.

(Mosca, 22 ottobre 2012)

*

Else è tua.

Dall’aereo, le ombre lunghe degli alberi.

Scuro cuore di cerva schierava

l’Oceano Atlantico,

l’inverno, tra te e lei.

Tu eri il ricordo che si alzava

come l’asta del saltatore.

(São Paulo, 21 luglio 2012)

*

(Il cervo – ) Else, hai le mosche nel reggiseno!

Else! Ti appendo per le tonsille!

Else, aiutami,

mi sembra di diventare reale.

Dietro la macchina fotografica

ci sono (le stelle).

Stanotte il lago voleva fare il mare

(Desenzano, 29 novembre 2012)

*

“Dizzy’s club Coca Cola”

Gli ottoni brillano più delle finestre.

Il Tacchino con foulard rosa al collo

ha la tromba firmata Jimmy.

La Tartaruga da strapparsi i guanti alla tuba

e le percussioni danno la sveglia ai bicchieri.

I tavoli ballano.

King Kong di lego si beve una birra.

Amsterdam scompare dalla faccia della terra.

Il vino si asciuga sulla pagina che scrivo.

Una storia lentissima, scarpe molto comode.

Tutti in giacca sudano.

(NY, Natale e Capodanno 2012)


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