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Paolo Mantioni, "Le età della vita"

Creato il 08 maggio 2013 da Signoradeifiltriblog @signoradeifiltr

Le età della vita

Paolo Mantioni

Bebert edizioni, 2013

pp152

13.00

Mi pare che tu non riesca a credere veramente in nulla di quello che fai, non ti consumi fino in fondo, continui a mantenere un controllo che ti serve per restare fuori. Ma così rischi di rimanere fuori dalla letteratura, dal lavoro e pure dalla vita.” (pag 86)

Ci sono persone che si guardano dall’esterno e non sono mai convinte o immerse in ciò che stanno facendo, restano sempre un passo al di fuori. Invece, per vivere, per fare carriera, per inserirsi bene nel sistema, bisogna essere agguerriti, disciplinati, disposti a compromessi, a non avere dubbi. Il protagonista di “Le età della vita”, alter ego giovanile dell’autore, è una di queste persone.

L’io narrante è un universitario, matricola di Lettere che, per mantenersi agli studi, lavora di notte ai mercati generali di Roma, come grossista di pesce. Apparentemente felice, ama lo studio, che lo fa volare in cieli intellettuali dai quali si sente irrimediabilmente attratto, ma ha anche un buon rapporto col suo lavoro, in grado di mantenerlo con i piedi per terra, di offrirgli il necessario distacco per vedere le cose con obiettività e non perdersi in un iperuranio di astrazioni filologiche. Ha pure una fidanzata che gli dà tutta se stessa, che gli vuole bene, che lo sprona studiare, a costruirsi una posizione come si deve.

Il suo lavoro lo mette a contatto con un’umanità variopinta, pittoresca, popolare, di cui si sente parte e dalla quale, nello stesso tempo, prende le distanze da persona colta.

Di tanto in tanto, come d’abitudine, interrompeva brevemente la lettura per assaporarne più pacatamente il gusto, per prolungarne e trattenerne il godimento, quasi a confrontarla con quanto di brutto e incomprensibile gli ruotava intorno.” (pag 53)

Ma anche lui appartiene a quel mondo, anche lui parla quel dialetto plebeo, anche lui è uno di loro, senza, tuttavia, esserlo fino in fondo.

Questo era il mondo popolare dal quale veniva e che amava frequentare ora che i libri lo aiutavano a distaccarsene, ora che poteva vederlo anche con gli occhi degli autori più amati e che poteva scomporlo con gli schemi analitici degli studiosi più in voga.” (pag 72)

Riesce ad analizzarne i meccanismi linguistici e le dinamiche umane, barcamenandosi fra i due mondi, tenendosi in equilibrio fin quando gli è possibile. Ma viene un momento in cui qualcosa si spezza e l’alienazione cresce, il senso di estraneità deflagra.

Qualcosa stava cambiando. Tra il “cacatore “ di Pieretto e il “sublime” di Patrizi da Cherso la forbice si andava facendo troppo ampia. Rischiava di perdersi in una terra prosciugata, abbandonata dall’uno e dall’altro. Il senso di non appartenenza lo stava ghermendo.”

Pure nelle vite che sembrano scorrere con più facilità, che paiono scivolare su ottimi binari, qualcosa stride, frena, blocca lo scorrimento: si chiama paura e può farti deragliare.

Sono due le paure che aleggiano nel romanzo, una è quella inconfessata che non accada nulla, che tutto vada come deve andare, che la fidanzata si trasformi in moglie, il lavoro precario diventi occupazione stabile, gli studi portino alla laurea e al posto fisso; l’altra, invece, che capiti l’imponderabile, lo scarto, lo scherzo cattivo del destino pronto a cambiare tutto, a distruggere, rivoluzionare, scompaginare.

Entrambe queste angosce sono identificate dal personaggio di Carmine Avagliano, uomo al limite, borderline fra un’esistenza quasi normale e una da barbone. Carmine rappresenta un incontro casuale per il protagonista ma di quelli che ti folgorano. Carmine, un tempo, era un laureato pieno di speranze e in procinto di sposarsi. Poi Elsa, la sua fidanzata svizzera, è morta in un incidente, e Carmine è andato lentamente alla deriva, ha smesso di studiare, di lavorare, mantenendo però il suo alloggio, seppur spoglio di ogni suppellettile, mantenendo una parvenza di regolarità fatta di dormite, di passeggiate, di una finestra dalla quale ancora guardare fuori.

Carmine è ciò che il protagonista potrebbe diventare se si lasciasse sommergere dal nulla, ma è anche, sottilmente, simbolo positivo di ribellione al sistema, a una vita conosciuta e prevedibile.

Il protagonista decide di mettere ordine nelle carte di Carmine. Non sa perché senta l’esigenza di farlo, visto che, sistemare la vita dell’altro significa scardinare la propria, non andare al lavoro, perdere le lezioni dell’università, litigare con la fidanzata. Più che i fogli di Carmine si accumulano in pile ordinate, più che la vita del protagonista va all’aria.

Voglio capire, voglio dargli un senso.”

”Il mondo non ha senso”

“Il mondo, no. Ma ogni sua singola componente, sì.” (pag 56)

Il bisogno di archiviare, di catalogare, è lo stesso che porta l’autore a descrivere con faticosa minuzia tutte le operazione del mercato, come se analizzando ciò che lo circonda, egli possa esercitare una qualche forma di controllo sulla propria vita - forse non proprio quella desiderata - e su se stesso, sui propri impulsi, su quel misto di alto e basso, di istinto e cultura, che lo caratterizza senza fondersi mai completamente, e che si riflette anche nella lingua, incisiva, curata nei minimi particolari, ma intersecata dal dialetto romanesco. “Un romano laureato in letteratura potrà mai spiccicarsi di dosso il romanesco?”

Raffinato e proletario, letterato e volgare, si alternano e s’incrociano come trama e ordito per tutto il romanzo.

Ma vaffanculo!

Il gesto apotropaico susseguente (fregarsi i testicoli, insomma) era assolutamente inevitabile. La superstizione accompagnata energicamente alla porta, tolleranti ma decisi, da Montesquieu, Leopardi e Lévi – Strauss, rifaceva capoccella dalla finestra, e chi le faceva da sgabello intrecciando le dita delle mani all’altezza dell’inguine? Un divertito e malizioso “Richetto er pesciarolo”, detto Lo Scaltro” (pag 70)

Sembrerebbe, a prima vista, la stessa operazione linguistica pasoliniana, solo che qui la mimesi è totale e non c’è lirismo nella lingua di Mantioni, solo un’operazione lucidamente razionale. Tuttavia, nonostante questo intellettualismo, nonostante la meticolosità con cui sono descritte certe scene, il romanzo non è faticoso, scorre, crea attesa e curiosità nel lettore.

C’è poi, anche se non del tutto sviluppato, il filone psicanalitico, che si ritrova nei racconti infantili a conclusione del romanzo. È come se l’autore accennasse a qualcosa di cui, tuttavia, non arrischia parlare. Se ci si potesse inoltrare nei meandri della psicanalisi, ci dice, le scoperte sarebbero tante e tali che un racconto solo non basterebbe, lo scavo interiore potrebbe davvero far uscire la vita dagli schemi autoimposti, trasformandola in scheggia impazzita, in lettera senza collocazione che può volare al primo colpo di vento.

CriticaLetteraria: Paolo Mantioni, "Le età della vita"

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