Il 23 maggio del 1915 l'Italia entrava ufficialmente tra gli stati belligeranti della Prima guerra mondiale. Ad un secolo di distanza, nel 2015, si ricorda quel momento con mostre, celebrazioni e manifestazioni che, lungo tutto lo stivale, rendono testimonianza di come, e quanto, quel tragico evento abbia cambiato il paese e gli italiani. Il mondo letterario, e quello della celluloide, hanno cavalcato l'onda confezionando prodotti che hanno messo sotto la lente d'ingrandimento quegli anni terribili, e, in particolar modo, l'impatto che essi ebbero sui nostri nonni.
Tra i tanti libri usciti in questo periodo, uno ci ha particolarmente colpito per l'originalità e l'importanza del narrato: Come cavalli che dormono in piedi, pubblicato da Feltrinelli nel novembre 2014. L'autore del volume è il giornalista Paolo Rumiz, inviato de Il Piccolo di Trieste ed editorialista de la Repubblica, testate per le quali ha seguito in prima linea il conflitto nella ex Jugoslavia e l'attacco statunitense all'Afghanistan nel 2001.
Nell'agosto del 1914, più di centomila trentini e giuliani vanno a combattere per l'Impero austro-ungarico, di cui sono sudditi. Partono per il fronte orientale, insieme a soldati delle varie etnie dell'immenso impero, con l'illusione che tutto si concluderà presto, "prima che le foglie cadano". Ed invece non si conclude affatto, il conflitto si propaga, come un'epidemia, a tutta l'Europa, finendo per calamitare l'attenzione generale sul fronte francese e su quello italiano, mentre quello orientale, sconfinato, scivola quasi nell'oblìo, schiacciato, nell'immaginario collettivo, dall'epopea di Verdun e del Piave.
Una visita al monumentale sacrario di Redipuglia, retorico omaggio del regime fascista a caduti, che, privati delle loro generalità, sono stati sottratti al loro triste destino di uomini, diventando oggetto e strumento di propaganda, dà il via all'incredibile viaggio di Rumiz, alla ricerca delle tombe dei "suoi" morti. Ripercorrendo, in treno, i percorsi delle tradotte che portarono i soldati verso il fronte orientale, l'autore finirà per riscoprire non solo le radici di un popolo e di un impero, ma dell'Europa stessa, resuscitando il lascito di valori e idee, che, all'epoca, sembravano ben più vive e condivise di quanto non lo siano oggi.
In quel contesto si consumò il dramma degli "italiani" in divisa austro-ungarica, vilipesi e disprezzati dai loro superiori, dimenticati, quasi con vergogna, dalla nuova patria.
La vastità del fronte orientale, caratterizzato da enormi distanze, che fagocitavano immense risorse sia umane che materiali, ne fece un teatro profondamente diverso da quello occidentale. Se ad Occidente si sviluppò una guerra di posizione e logoramento, con milioni di soldati costretti, per anni, in luride trincee, tra fango e pidocchi, martellati e spappolati dalle artiglierie, "suicidati" da ottusi generali che li mandavano a morire contro nidi di mitragliatrici e reticolati per conquistare poche centinaia di metri di terreno, ad Oriente fu invece guerra di movimento, come nei secoli precedenti, con grandi carneficine di uomini e cavalli.
Forse è stata proprio questa sua marcata differenza a far sì che il fronte orientale venisse cassato, quasi censurato, dal presente e dallo stesso centenario della Grande guerra, come se a quei campi di battaglia e a quei soldati fosse negato lo spessore monumentale della memoria.
Paolo Rumiz, in Come cavalli che dormono in piedi, prende dunque le mosse proprio da questa grave ingiustizia e da questa rimozione, e dal desiderio di conoscere qualcosa in più del nonno partito per il fronte con una divisa austro-ungarica. Il viaggio verso la Galizia, la terra di Bruno Schulz e Joseph Roth, mitica frontiera dell'Impero austro-ungarico, oggi compresa fra Polonia e Ucraina, si trasforma pertanto in un viaggio della memoria, che è di scoperta e di riappropriazione di un passato negato. Lo sferragliare del treno su antiche rotaie, le piccole e grandi stazioni, spesso edificate ai tempi dell'Impero, eleganti e monumentali, le immense pianure che sfrecciano dal finestrino, i villaggi sperduti, i ritmi placidi ed immutabili, diventano, per Rumiz, occasione per la celebrazione di un mondo e dell'Europa che era, e poteva essere.
Il cammino intrapreso cessa di svolgere la funzione di collegamento tra luoghi, trasformandosi invece in pura introspezione ed in evocazione di figure ancestrali, in quella che diviene, dunque, una specie di omerica discesa nell'Ade, attraverso una ritualità fatta di libagioni e di lumini accesi per punteggiare con piccole, tremule, luci prati e foreste oggi oasi di pace, un tempo teatro di indicibile orrore.
Il marmo bianco italiano, monumentale e anonimo, trova così le sue risposte più profonde, la pietà ed il culto dei morti legano, finalmente, in una sola, profonda, compassionevole, voce, il silenzio di Redipuglia ai bisbigli dei cimiteri galiziani coperti di mirtilli. L'Europa è proprio lì, sembra suggerire l'autore, in quella riconciliazione con i morti che sono oggi i veri vivi, gli unici depositari di quel senso d'unione che già allora poteva nascere e che oggi esiste solo formalmente.
Questo stridente iato tra passato e presente, tra ideali e realtà, si fa più evidente proprio nella parte finale del libro, quando, giunto in Ucraina, Rumiz si trova ad essere testimone dei primi moti di piazza a Kiev, che aprono un altro dei tanti fronti dimenticati, che insanguinano l'Europa da anni, nella passiva, mediatica, indifferente, accettazione delle masse. Proprio quel medesimo stato mentale che, da un sia pur grave omicidio politico, perpetrato a Sarajevo, trascinò l'Europa a suicidarsi, prima sugli insanguinati campi della Grande guerra, poi su tutto il suo territorio, nel secondo conflitto, che ne fu la prosecuzione inevitabile dopo la pace/armistizio di Versailles.
Come cavalli che dormono in piedi è un'opera innovativa ed originale che non descrive battaglie e stragi, ma che racconta di uomini e idee, un'opera che fa molto meditare su come negli anni, a fronte di una Unione di fatto, si siano gradualmente persi quegli ideali che, frutto di quella comunanza di spirito e di intenti che proprio le trincee della Grande guerra resero possibile, sostengono il sogno europeo. Ma è anche, e soprattutto, un viaggio della nostalgia, un vero atto d'amore per quei centomila ragazzi, trentini e giuliani, che, con indosso la divisa austro-ungarica, persero tutti la loro innocenza, molti la vita, nell'immensità del fronte orientale, e peggio ancora, tra i vivi, vennero dimenticati, quanto non addirittura vituperati, sia nella vecchia che nella nuova patria.