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Papa Francesco a Sarajevo. Testimoni del perdono

Creato il 08 giugno 2015 da Gaetano63
Papa Francesco a Sarajevo. Testimoni del perdonoCronaca del toccante incontro in cattedraledal nostro inviato Gaetano ValliniDon Zvonimir Matijević, sessant’anni, cammina a fatica, si serve di due stampelle, e per salire i tre gradini che portano all’altare ha bisogno dell’aiuto di un altro sacerdote e di una suora. Nel corpo porta i segni delle torture che ha subito durante la guerra che venti anni fa insanguinò la Bosnia ed Erzegovina. Davanti a Papa Francesco prende la parola e in croato comincia a raccontare quanto accadde la Domenica delle Palme del 1992, quando dopo la messa venne prelevato dalla sua parrocchia di Glamoć e picchiato selvaggiamente. «Hanno cercato più volte di farmi dire pubblicamente in televisione che sono un criminale di guerra, che i sacerdoti cattolici sono dei criminali e che essi educano criminali», ricorda. Lo picchiarono con tale violenza  da ridurlo in fin di vita. Don Zvonimir  si commuove, ma riesce ad andare avanti nel racconto. Dopo un mese e mezzo in ospedale, diversi interventi chirurgici e trasfusioni di sangue, viene scambiato come prigioniero di guerra e torna in libertà. Ma il suo fisico è segnato per sempre. «Attraverso la mia testimonianza — conclude il sacerdote della diocesi di Banja Luka — lei può ascoltare migliaia di testimonianze di persone che hanno sofferto. Ma sono persone che perdono la speranza, perché credono fermamente in Dio, nella vittoria del bene sul male». Del resto, confida, lui i suoi aguzzini li ha perdonati e prega per loro.Papa Francesco, che ha seguito su un testo scritto e letto velocemente, osserva con emozione quel prete che sta ripercorrendo il suo martirio. E quando il racconto termina, mentre la tensione dei presenti si scioglie in un lungo applauso, si alza, gli si fa incontro, lo abbraccia, s’inchina, gli bacia la mano, lo guarda dritto negli occhi, poi gli sussurra qualcosa all’orecchio. Subito dopo il sacerdote gli pone la mano sul capo e lo benedice. Era già accaduto a Tirana, in Albania, quando il Pontefice aveva ascoltato le testimonianze di un prete e di una suora vittime del regime comunista ateo di Hoxha. Si è ripetuto sabato pomeriggio a Sarajevo, durante l’incontro  con i sacerdoti, i religiosi e i seminaristi nella cattedrale del Sacro Cuore, il momento più toccante della visita nella capitale della Bosnia ed Erzegovina. Anche qui la Chiesa uscita venti anni fa dall’inverno insanguinato della guerra e della persecuzione ha il volto segnato dalle sofferenze, eppure sereno, dei martiri, di quanti non  hanno ceduto, aiutando l’intera comunità a rifiorire nella speranza. Una Chiesa che ha anche il volto di fra Jozo Puškarić, 62 anni, e di suor Ljubica Šekerija, 63 anni, che prendono la parola dopo don Matijević. Il religioso della provincia francescana di Bosnia Argentina racconta di quando nel maggio del 1992, mentre era parroco a Bosanski Šamac, venne arrestato da poliziotti serbi e portato con altri parrocchiani in un campo di concentramento. Vi trascorse 120 giorni; quattro mesi terribili di privazioni, maltrattamenti, violenze, minacce. «Una volta mi era talmente difficile resistere, che ho pregato la guardia di uccidermi», dice, e le parole gli si spezzano in gola. Si ferma, ricordare fa male, è difficile. Dalla sagrestia un sacerdote gli porta un bicchiere d’acqua.  Fra Jozo ne beve un sorso e poi riprende. Anche la sua storia finisce con uno scambio di prigionieri, almeno così si intuisce. Ma non è importante. Ciò che conta è che è sopravvissuto, per testimoniare. «Non ho mai provato odio per i miei aguzzini. Io li ho perdonati», confessa anch’egli. Alla fine, come aveva fatto prima, Francesco si alza, va ad abbracciarlo a lungo, si china e bacia anche a lui la mano, quindi lo ringrazia della testimonianza. È quindi la volta di suor Ljubica, della congregazione delle Figlie della divina carità. Il 15 ottobre 1993, mentre era nella casa parrocchiale di Travnik, alcuni miliziani stranieri la prelevarono costringendola a seguirli, insieme al parroco, don Vinko Vidaković e a tre laici. Durante la prigionia le trovarono un rosario  in tasca, lo gettarono a terra, intimando al sacerdote di calpestarlo. Al suo rifiuto, uno dei miliziani lo minacciò di massacrare la religiosa se non l’avesse fatto. «Don Vinko, lasciate pure che mi uccidano, ma, per l’amor di Dio, non calpestate il nostro oggetto sacro», ricorda  di averlo implorato la religiosa. Alla minaccia fortunatamente non segue la violenza, ma  provocazioni e umiliazioni continuano nei giorni successivi, fino alla liberazione, alcuni giorni dopo. «Per quanto i nemici siano stati insensibili e malvagi, ha sovrabbondato la grazia di Dio», conclude suor Ljubica, che quando finisce viene raggiunta dal Papa che l’abbraccia, soffermandosi a parlare con lei per qualche istante. «Prega per me», le chiede prima di tornare al suo posto.Poi, quando tocca a lui parlare, Francesco invita i presenti a sedersi. Ma nella cattedrale, che non è molto grande, non ci sono banchi o sedie: sono stati tolti, per consentire al maggior numero di persone di partecipare. Quindi si fa dare il discorso che aveva preparato, «ma dopo aver sentito le testimonianze di questo sacerdote, di questo religioso, di questa religiosa — dice —  sento il bisogno di parlarvi a braccio». E consegna  il testo scritto al cardinale arcivescovo Puljić.  Il Pontefice parla del dovere della memoria, del perdono, della pace frutto del perdono. E ai presenti affida le parole di questi martiri, così li chiama: «Benedetti voi, che avete così vicine queste testimonianze: non dimenticatele, per favore». Ma per la Chiesa in Bosnia ed Erzegovina, che ha sofferto molto, sarà difficile dimenticare. «Molti di noi — sottolinea nel suo saluto al Pontefice il cardinale  Puljić — sono stati segnati dalla brutta esperienza della recente guerra e del dopoguerra, come anche dall’esperienza del regime comunista», sottolinea.  Nel 1991 qui c’erano 835.000 cattolici, oggi sono poco più della metà.  L’arcivescovo racconta di famiglie sfollate durante il conflitto di venti anni fa e che non sono più tornate, di tanti emigrati, del calo delle vocazioni. Per questo, aggiunge, «abbiamo bisogno di una parola di coraggio che ci aiuti, in questo tempo e in questa regione, a testimoniare Cristo risorto».(©L'Osservatore Romano –  8-9 giugno  2015)

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