Francesco De Girolamo, Paradigma, LietoColle Libri, 2010
Questa raccolta poetica di Francesco De Girolamo è un percorso nell’arco temporale di circa dodici anni, una ricerca incessante di trovare risposte agli interrogativi che la vita e l’esperienza umana (sia essa sociale, affettiva, dolorosa, memoriale) ci pone e impone. L’intensità lirica e il ritmo incalzante e trascinante del verso che caratterizzano questa raccolta sono l’epicentro di una struttura solida e complessa che ha sì radici ben solide nella grande tradizione classica poetica ma la cui linea così originale e moderna ne rappresenta il nerbo vitale che ci regala frammenti d’emozioni in passaggi d’anima, e ci aiuta a riflettere su noi stessi e su ciò che ci circonda. La passione e la compassione umana tengono le fila dei versi, come nella straordinaria poesia Metamorfosi: “Non è molto quel ramo dietro i vetri/ per sapere che fuori impera il niente;/ ma è tutto ciò che scorgi e che non vedi/che lo trasforma in una gemma ardente// Che lo trasforma in una calda rosa/ che accende il limitare dello sguardo/della sua sete indomita e operosa;/e ritrasfonde in musica il suo pianto.”
Il grido lacerante di Francesco non è certo un appello nichilista, o un recriminare piagnone a vuoto, è invece angoscia esistenziale che divora e abbatte; il suo fare tabula rasa significa prendere atto che non ci sono certezze se non quella della sofferenza, che non esiste una sola verità, e le verità, come anche la realtà, sono disancorate e soggette a ribaltamenti. Che ci sono cambiamenti nel tempo e nello spazio, c’è un divenire continuo anche nei sentimenti e nelle percezioni. Che quell’io così frammentato, dicotomico, inverso o inatteso che sia, è magma prorompente e pesto che trascina non soltanto l’universo composito e franto descritto nei versi, ma l’autore stesso. Un modello di riferimento, un termine di paragone è il significato della parola paradigma, però in questo caso non fornisce soluzioni. Siamo proprio ciò che crediamo? Non per niente il dubbio amletico dell’essere o non essere è il più fedele compagno dell’uomo nel susseguirsi dei secoli. E l’amore e la religione sono per davvero salvifiche o sono solo illusioni? Eppure Dio è presente anche nella sua assenza in questa invocazione davvero toccante: “Con tutte le mie forze/ ho pregato Dio di non esistere,/ di non squartarmi più il cuore sordo/ col suo sussurro di vento in tempesta,/di non trafiggermi più con lo sguardo/delle sue gelide stelle inquiete,/di non tendere più le sue mani/nel labirinto del mio placido abisso” (Ultima grazia), ovvero come apparenza: “..Non ho che Te per riafferrare il tutto/ nella tua concrezione d’apparenza/in volti e luci che nella tua essenza/hanno sgorgato il sangue senza lutto./..” (Paradigma), magari come cielo, albero o frutto. Ed è molto suggestivo questo passaggio tra il “Tu” ultraterreno e il “tu” femminile a cui l’autore si rivolge: “..Vedo i tuoi occhi chiusi che non parlano/e sento che le tue labbra non vedono/il risveglio nel tuo letto dorato,/dove attraverso il tuo viso, il mio sguardo/afferra in sé il cuore azzurro del tempo” (Mentite spoglie).
Quante luci e ombre ci sono in queste bellissime poesie dove in un gioco di specchi le immagini si sdoppiano e si raddoppiano, ma al tempo stesso quanta determinazione e lucida consapevolezza di come vanno le spietate leggi del mondo: “Quello che vedo non è quello che penso;/ quello che dico non è quello che sento;/ i miei nemici sono i miei nemici;/ l’io che non sono ha ucciso l’io che ero./Portami via con te, portami dentro/il tuo tiepido cielo senza vento…” (Mentite spoglie). Questa è Poesia coraggiosa di opposizione e negazione, ma è proprio attraverso la negazione che si (ri)afferma l’esserci e la relazione con l’altro da sé e col mondo, e del resto sappiamo che ogni cosa ha il suo contrario, anche la filosofia e la psicanalisi ce lo rammentano continuamente.
Nelle poesie di De Girolamo si trova un’attenzione costante anche alle tematiche sociali, come in Nascondiglio, un appello contro la discriminazione, in questo caso l’omosessualità vissuta da due ragazzine quindicenni: “..Tutto il bello e il brutto della vita/ era lì disegnato, in quella strada sudicia e senza uscita/tra ciuffi d’erba e miseri rifiuti: oh benedetto/ nascondiglio di un’estasi impaurita!”.
In questo libro ho particolarmente apprezzato anche la fermezza e la densità della parola, così cristallina e vibrante, e come per l’autore la poesia rappresenta una sfida nei confronti della vita. Mettere in gioco sé stesso è perciò il principale omaggio che il poeta può fare alla poesia e ai suoi lettori.
Monica Martinelli (da “I fiori del male” – Quadrimestrale di Poesia, Cultura Letteraria e Arte – Anno VIII, n. 54)