Personalmente, infatti, vi ho riscontrato residue influenze di quel dark e gothic sound che già in Faith Divides Us – Death Unites Us si stavano affievolendo di molto, pur essendo ancora presenti. Per questi motivi Tragic Idol è assurto, di fatto, a mio terzo disco preferito degli inglesi, dove gli altri due sono, nell’ordine: l’omonimo del 2005 e One Second. Capisco che preferire la fase gothic a quella death/doom possa suonare strano a qualcuno ma esistono anche gli argomenti per sostenere una cosa del genere. L’argomento è che per uno della mia generazione, che ha cominciato ad apprezzare veramente i Paradise Lost nel ’97, anno in cui il doom britannico era abbondantemente ‘coperto’ dai lavori dei MDB (i quali, ad oggi, sono i veri e ultimi alfieri del genere che hanno contribuito a costruire), non potrebbe essere diversamente perché da quel momento e per i dieci anni successivi i PL saranno tutt’altro che una band di death/doom. Il lungo periodo dark/gothic, per loro, non è stato solo frutto di una rapida infatuazione o derivante dalla moda dell’epoca ma uno strapparsi di dosso la vecchia pelle e l’indossarne una completamente nuova, al punto che oggi fanno tantissima fatica a tirarla via. E così, alla notizia che il nuovo album dei Paradise Lost avrebbe ricordato il primo periodo death, capirete come mi sia fatto una grassa risata.
Il disco, come il predecessore, non arriva a toccare le ben più auspicabili vette di cupezza e ruvidezza tipiche di Gothic, per il raggiungimento delle quali, evidentemente, le attuali motivazioni personali non sono sufficienti. Invece, a differenza del predecessore, in cui tutto filava liscio e dove le interferenze tra la prima e la seconda vita della band erano fuse insieme in modo assolutamente coerente, The Plague Within appare sì più cupo e doom in senso stretto (Beneath Broken Earth e Sacrifice the Flame) ma anche artificioso, così come la sua intenzione di vestirsi di un vecchio abito, non riuscendo proprio a staccarsi dal gothic (An Eternity of Lies, Victim of the Past e Return to the Sun) e rappresentando, in definitiva, un netto passo indietro dal punto di vista stilistico rispetto a Tragic Idol. Come Splinters, il cui parallelismo rischia, nonostante tutto, di diventare troppo punitivo, è un disco nel complesso meno verace, le cui intuizioni principali sono state già abbondantemente sviluppate e in cui prevale il già sentito, a parte quei due/tre singoli che da soli possono pure giustificarne un acquisto, ma dove la millantata idea di death si palesa raramente (Flesh From Bone e Terminal) e la coerenza va a farsi benedire. (Charles)