Ultimamente i miei gusti cinematografici sembrano essere sballati completamente, ma questo non significa che la cosa debba per forza dispiacermi, anzi. Potrei partire dal fatto altrettanto insolito che riguarda le traduzioni italiane che, il più delle volte, stravolgono (uccidendolo) il film che da oltreoceano arriva nelle nostre sale. A pensarci bene The descendants non mi avrebbe incuriosita più di tanto, e nemmeno avrebbe contribuito a farmi fare un'idea sul film. Paradiso Amaro ha qualcosa già nel suono che produce, un messaggio che quasi non lascia via di scampo. Quell'amarezza che permea il titolo, non abbandona di fatto, nemmeno per un istante, lo spettatore che deve saper gestire questo inspiegabile contrasto che c'è, tra lo sfondo paradisiaco delle Hawaii e il dolore pronto ad esplodere dallo schermo, senza preavviso, proprio come nella vita.
Quella della commedia amara che sottilmente scava nell'epidermide, è una prerogativa del cinema di Alexander Payne. Dopo sette anni, dopo quel viaggio indimenticabile di Jack e Miles (Sideways - in viaggio con Jack) il regista statunitense, torna dietro la macchina da presa per seguire e raccontare, passo passo, la corsa disperata di un uomo, simbolo della commiserazione e del dissesto psicologico maschile. Una corsa che non ci dà mai modo di sapere dove vuole arrivare, nel mentre però, quello che sappiamo per certo, vince la presa di coscienza da parte di un uomo fondamentalmente solo, incapace fino a ieri di comunicare con le figlie e di badare ad esse, se non delegando il tutto nelle mani della moglie.
A mettere in moto tutto è un incidente in mare, nel quale la moglie di Matt/George Clooney, avrà la peggio. Dal coma irreversibile si arriva poi alla terribile decisione di staccare le macchine, di porre fine a quel briciolo di vita (se così possiamo chiamarla) rimasto alla donna. Ad animare il tutto, questa interminabile attesa, sarà il rapporto di un padre disperato e impreparato, con le sue due figlie. La più grande, Alexandra/Shailene Woodley, è una bella tipa, ribelle e dalla parolaccia facile. Quella che ha dovuto toccare con mano la fine del matrimonio dei genitori, sorprendendo la madre con un altro uomo, prima e sostenendo il padre durante il lungo e difficile percorso dell'accettazione, dopo. La giovane Woodley incarna a meraviglia una piccola donna capace perfino di prendersi cura del proprio padre, perché spesso incapace, ma anche perché affranto da tutto il dolore e le umiliazioni che gli stavano piovendo addosso. Clooney è davvero una sorpresa che lo spettatore non potrà mai dimenticare. La stella di Hollywood che diventa umano? Un uomo goffo, inadatto e deriso dalla sua stessa fallimentare esistenza?
Ebbene, quando vediamo la corsa disperata e comica di Matt, per raggiungere gli amici e dunque la verità sulla relazione della moglie, ci viene un nodo in gola e l'affanno, come se stessimo correndo insieme a lui, bramosi di saperne di più. Le espressioni facciali di quest'uomo, il suo essere a disagio continuamente, fanno quella che io considero, la prova più umanamente alta, di Clooney. Mi rimane dentro al cuore lo sguardo di Matt e il dolore inesploso di fronte alle parole pungenti e cattive del suocero, mentre lo rimprovera per aver rovinato la vita alla figlia. Oppure le parole in ospedale, le ultime parole. Senza rabbia o rancore solo l'immenso dolore di un uomo che di colpo ha dovuto affrontare per ben due volte la perdita della donna amata. Accettare che lei avrebbe chiesto il divorzio e accettarne la morte. Poco contano gli affari e la storia della vendita del terreno cui sarà coinvolto Matt. La sola cosa che qui conta, è che di fronte alle prove più dure cui ci sottopone la vita, non esiste l'eroe, non esiste il divo. Esiste solo l'uomo...