Ci siamo appena svegliati e un vago senso fastidio ci accompagna, mentre il ricordo dell’ultimo sogno sfuma nella sempre più vigile coscienza diurna. La ragione tocca quella strana logica onirica che fino ad un attimo prima sembrava funzionale e pratica, e in questo “tocco” talvolta riconosce qualcosa di sé che però la coscienza possiede soltanto nel silenzio e nell’oscurità. Le ombre svaniscono sempre più evanescenti e intangibili al crescere della luce della ragione. Più desideriamo trattenerne almeno la memoria e più sono sfuggenti, più ci rammarichiamo di questo e più il pensiero si allontana dai sentieri notturni.
Più ci sforziamo di afferrare, di “com-prendere”, quel barlume di realtà e più esso ci sfugge, proprio come se lo sforzo mentale di farlo emergere alla coscienza fosse una “traduzione” che troppo ne sconvolgerebbe il senso. Ovvero è proprio l’intensità dello sforzo che male si presta a cogliere la delicatezza del sogno nel momento in cui la sua realtà si allontana; e, senza accorgercene, ci troviamo a riflettere come nello stato di veglia: “Se penso mi sveglio e tutto svanisce, se non penso, forse stavolta potrò ricordare… magari trattenermi ancora un po’ in questi scenari metafisici… allora provo a non pensarci… vediamo… accidenti, sto pensando!”
Tanto vale svegliarci del tutto e far funzionare il cervello, seppur ordinariamente… per quanto sia possibile fare di fronte ai paradossi. Ricordiamo le innumerevoli figure impossibili, le scale ascendenti che sembrano discendere negli “improbabili” disegni di Maurits Escher, gli antichi quadri enigmatici che alludono a segreti esoterici, ma soprattutto le “figure reversibili” in cui si crea ad arte una situazione ambigua fra figura e sfondo. In questo gioco fu maestro anche lo psicologo danese Edgar Rubin (1886-1951) che propose nel 1915 le famose immagini figura-sfondo, alla ricerca dell’inafferrabile realtà duale e dell’attimo fuggente del “qui e ora” della psicologia della Gestalt.
L’ambiguità fra bianco e nero, fra luce ed ombra, appare irrisolvibile, perché sempre e solo una figura prevale come tale, mentre l’altra è relegata al ruolo di sfondo. La sottile alchimia del cogliere entrambi i colori come figure significanti in un’unica figura plurisignificante ha risvolti psicologici ed esoterici che richiamano l’antico detto Solve et coagula. Il positivo ed il negativo sono entrambi reali, ma solo uno dei due (alternativamente) possiede il rango di “forma” quando l’altro assume il ruolo di “sostanza”: se il bianco appare figura, il nero è sfondo; se invece il nero sembra figura, lo sfondo è bianco. Così l’epifania della figura-forma si staglia sul colore diafanico dello sfondo-sostanza e quasi ne emerge come se si avvicinasse all’osservatore. Le figure sono “oggetti” dell’attenzione della mente ed appaiono quindi più significative ed evocative; i loro margini sembrano appartenergli in modo esclusivo anziché essere, come è logico pensare, confini di due entità ugualmente rappresentative della realtà. La percezione contemporanea dei due colori in quanto figure significative sembra impossibile: talvolta prevale l’una, talvolta l’altra; e la mente dell’osservatore gioca un ruolo davvero decisivo nell’inevitabile instabilità percettiva, così come la soggettività dell’osservatore.
Le tradizioni iniziatiche orientali insegnano che l’attenzione e l’oggetto dell’attenzione diventano un’unica realtà trascendente nella meditazione e nell’attimo brevissimo di illuminazione, ma la loro interazione è anche fisica e concreta secondo il Principio di Indeterminazione di Heisenberg e secondo i più moderni assiomi della fisica quantistica. Quello che nello Yoga è un antichissimo concetto metafisico di unione fra soggetto e oggetto della meditazione finalmente trova una corrispondenza fisica nel vero senso del termine, pur rimanendo tutti i limiti delle percezioni sensoriali, che sono e rimangono squisitamente soggettive.
Se scegliamo di osservare i volti neri che si fronteggiano, il bianco diventa automaticamente lo sfondo; ma se la nostra attenzione si volge al calice bianco centrale, il nero ai lati perde di identità. Se il bianco è, il nero non è, e viceversa. È difficile carpire contemporaneamente la presenza di entrambe le realtà, ma è esercizio gestaltico di notevole significato: un’operazione alchemica interiore di discernimento e di riunificazione, mirabile e semplice esempio di dissolvimento e di coagulazione, di necessario selettivo filtro e di mistica fusione sul lungo e complesso cammino che conduce alla Grande Opera. È qui che il misticismo delle antiche tradizioni incontra le avanguardie della moderna ricerca scientifica alla ricerca della Pietra Filosofale e della soluzione al paradosso del “gatto di Schroedinger”, che è contemporaneamente “vivo” e “morto” nella scatola finché l’osservatore non la apre… ma questa è un’altra storia e ne parleremo un’altra volta.
Giovanni Pelosini