Monica Fabbri per il Simplicissimus
Io ce l’avevo questa estate, la casa a Boulevard Voltaire. Presa in affitto, da buona medio- borghese, a metà tra il quartiere fichetto, che non mi posso permettere, ed il quartiere normale, che fa tanto “ io-conosco-la città”. E la sera passavamo lì davanti, al teatro, domandandoci un po’ oziosi e un po’snob che significasse, quel nome Bataclan. Era normale, sedersi a quel baretto e prendersi l’apéro, pigra, parigina facente funzioni.
Lo scorso venerdì sera dormivo il sonno di sasso della stanchezza, la mattina mi alzo e vedo quella strada, quel giro di case, quei corpi. Ecco, dove sono i miei amici? Tutti ancora vivi, spaesati, spaventati, però vivi. Gli ha detto bene, per caso non c’erano, anche se alcuni fanno musica, altri abitano lì, a un passo dal cerchio rosso, altri dietro lo stadio.
Passo sabato e domenica infognata nella Rete, guardo, cerco, leggo. Cerco di non pensare al dolore sordo e continuo, alla ragione e alle ragioni, leggo, penso, leggo, guardo, leggo, leggo.
Ma è il lunedì che mi porta la prova: 18 facce di ragazzini confusi, incapaci di definire il territorio della paura, che ripetono le parole ascoltate in televisione: “Siamo sotto attacco, ho paura, mamma non mi fa prendere la metro, bisogna isolarli…” E allora cominci a spiegare che la complessità richiede pazienza, che, se sei occupato a comprendere i sistemi complessi, non hai tempo di avere paura, che la fatica di leggere, studiare, capire è l’arma più affilata che abbiamo, che tutti rifiutano perché è lungo allenarsi a discutere. E che quello che conviene, quando si ha paura, è chiedersi paura di che. E che poi, alla fine, il modo migliore di superarla è tornare ad essere normali. Umani.
Tornare ad essere umani.