L’intenzione era quella di stare lontana dal computer, parlare con almeno cinque persone diverse durante il giorno, tornare a casa stanca e addormentarmi subito, imparare nuove cose, abbandonare la scrittura, almeno per un po’. Così l’anno scorso, ho iniziato a lavorare in un negozietto di giocattoli e accessori nel Marais, nella parte sud del quartiere, quella più discreta, con meno kebab e più gallerie, meno bar alla moda e più palazzi residenziali.
Il negozio si trova in rue François Miron, accanto alle abitazioni medievali risalenti al Trecento, tre case dal tetto spiovente, con le travi in legno, tra le più vecchie di tutta Parigi, dove, incredibilmente, ho scoperto che hanno l’ascensore (chi sa dove abito capirà il motivo di tale sgomento)! Di fronte, gongola uno degli empori più famosi della capitale, Chez Izrael, un pittoresco bazar di spiriti e sapori da tutto il mondo, gestito da un’anziana coppia, Françoise e Izrael, canuti e schietti. Qui si fa la fila per comprare frutta secca e datteri, olive marinate e dolciumi turchi, spezie e riso, noci di macadamia, anice, tamarindo, acquavite di Borgogna, farine, tarama, pesto, acciughe, feta, canditi e ci si perde nella collezione di pepe e olio d’oliva.
Cercavamo proprio Chez Izrael, io e i miei genitori, quando abbiamo scorto l’annuncio di lavoro, esattamente un anno fa. Ho accettato il posto per sfuggire alla solitudine della scrittura in solitaria dietro a un computer e avere un minimo contatto con il mondo reale. Avendo debuttato nel periodo prenatalizio, più che un contatto, ho subito una vera e propria invasione barbarica, una sfrenata corsa al regalo, con più di 2000 scontrini al giorno e migliaia di clienti in un negozio di una ventina di metri quadri. In pochi mesi, ho imparato a fare i conti rapidissimamente, a confezionare pacchetti regalo impeccabili, a improvvisare un argomento a favore di ogni singolo articolo del negozio, a inventare parole in francese e a farmi anche capire.
La clientela è abbastanza varia. Tanti turisti alla ricerca di un briciolo di Parigi da portare a casa, fidanzati smarriti alla ricerca di un braccialetto o un paio di orecchini da regalare, donne giapponesi che in 5 minuti escono con 300 euro di borsa appesi al braccio, eleganti signore del quartiere che vengono a controllare le novità, ragazzine appassionate di bricolage che collezionano nastri adesivi colorati, nonne con passeggini al seguito, indefessi arbitri del gusto che passano i fine settimana a cercare un vassoio per l’aperitivo che abbia la stessa sfumatura di verde del divano del salotto, studentelli in cerca di cover per i-phone, madri disperate che, alla vigilia delle vacanze, hanno un urgente bisogno di giochi, stampini, timbri, carillon e ninnoli per tenere occupata la prole.
Ho continuato a lavorare fino al mese di maggio e ho ripreso da poco, nonostante quest’anno sia in tutt’altre faccende affaccendata, per il piacere di tirarmi fuori dal mio bozzolo e andare al lavoro fuori dalle quattro mura di casa, perché alla fine chiacchierare con i clienti e aiutarli a fare un regalo mi piace, mi piace quando arrivo la mattina presto, da sola, faccio partire la musica e lascio la porta aperta e anche per guadagnare un po’ di soldi, da spendere in frivolezze senza tanti sensi di colpa.
Ogni giorno ho circa un’ora di pausa, che di solito impiego lanciandomi alla scoperta del quartiere. Se c’è bel tempo, invece, vado a sedermi vicino la Senna oppure sulle panchine di Square Marie Trintignant per leggere al sole. Scarto tutte le boulangerie di lusso e vado da Manon, una panetteria discreta vicino la metropolitana, tra le migliori della zona. Da qui, poi trattengo il fiato per attraversare la rue du Prévot, una sorta di toilette pubblica del quartiere, e sbuco dall’altro lato dell’isolato. Una settimana fa, c’era un sole insperato, mi sono seduta sul ciglio della Senna, mi sono sentita felice, pur non avendo nessun motivo in particolare. Mi sono detta che quando mi succede qualcosa di bello, resto sempre un po’ interdetta, non so come reagire, se esultare, se sorridere, se fare finta di niente e l’entusiasmo sfuma in quei pochi secondi. Invece, sentire affiorare la serenità, quasi la contentezza senza motivo è la forma di buon umore che mi riesce meglio, almeno finora.
Prima di tornare dietro il bancone, passo da Chez Mademoiselle, in rue Charlemagne, a prendere un caffè. È un ristorante accogliente, con una bella terrazza. L’anno scorso, avevo l’abitudine di andarci quasi tutti i giorni e hanno cominciato a chiamarmi “la petite” e a prepararmi un caffè già quando mi vedevano arrivare. Sono le gioie infinitesimali dell’essere straniero in una città e trovare un angolo di casa in un bar sconosciuto.
Poco distante inizia il Village Saint-Paul, una serie di cortili collegati fra loro, dove si affacciano ristoranti, gallerie, mostre temporanee, negozietti di chincaglierie e antiquariato. Svoltando verso rue Saint-Paul, tornano le decorazioni improbabili, il Museo della Magia, l’Hotel della Settima Arte, con ninnoli e souvenir dal mondo del cinema, ristoranti di sushi e il famoso Thanksgiving, storico punto vendita americano, dove trovare cheesecake fatte in casa, cheddar, tutto l’occorrente per preparare i veri hot-dog e hamburger, bourbon e whiskey dalla California, tortilla di mais, birre americane e ovviamente tacchini e ingredienti del ripieno, il tradizionale “turkey stuffing”, per il Giorno del Ringraziamento. Tornando indietro, si passa per rue de Fourcy, dove troneggia la Maison Européenne de la Photographie, gigantesca istituzione della fotografia, che ha accolto le mostre, fra gli altri, di Lynch e Salgado. Poco lontano, un porticato con le vetrine di un negozio di biancheria intima è il rifugio di tre, quattro clochard, che ormai non chiedono neanche più l’elemosina. Prendendo invece rue de Jouy, ci s’imbatte in una delle librerie indipendenti più autorevoli di Parigi, gestita da madame Michèle Ignazi.
Il mio negozio è un po’ come il resto del quartiere: il trionfo del superfluo. Vendiamo guanti per le mezze stagioni, piccoli e costosissimi magneti da frigo, radioline che si caricano a manovella, portamonete in pelle d’anguilla, occhiali senza correzione, mini-cannoni usa e getta per esplosioni di coriandoli, timer per misurare il tempo d’infusione di tè e tisane, spugne da cucina ecologiche e biodegradabili. Si entra raramente trafelati, alla ricerca di un bene di prima necessità, ad eccezione degli sventurati turisti colpiti da un acquazzone che si affacciano chiedendo disperatamente un ombrello e se ne vanno moggi rifiutando la mia proposta di acquistare un ombrellino di design a 45 euro, l’unico che abbiamo.
Mi piace restarmene dietro il bancone e osservare chi si aggira tra gli scaffali, entrare per un attimo in collisione con altre esistenze. L’anno scorso, per ringraziarmi dei consigli nella scelta dei regali, un ragazzo è tornato a regalarmi un cd di Bruce Springsteen (!) e una lettera in italiano, visibilmente tradotta con Google, con annesso numero di telefono, dove mi scriveva che a Napoli, la statua del Cristo gli aveva promesso di inviare sulla sua strada una piacente donna italiana, che sarei io. Una signora della Carolina del Sud mi ha raccontato di una traversata in auto lungo tutta la Puglia a fotografare i siti archeologici, con suo marito, storico dell’arte medievale. Pochi giorni fa, entra precipitoso un signore. Mocassini di pelle, jeans leggermente cadenti tenuti su da un cinturone nero, una t-shirt viola attillata infilata dentro i pantaloni, un lungo cappotto grigio e una shopping bag bianca di tela. Aveva occhi vispi nascosti dietro un paio di occhiali evidenti dalla montatura nera pesante, pochi capelli e un accento straniero che me lo ha reso immediatamente simpatico. “Bonjour madame”, ha esordito, “avete cartoline per condoglianze?”. Ho fatto un veloce inventario in testa: noi abbiamo carte di compleanno psichedeliche, cartoline d’auguri in legno, cartoline di Parigi panoramiche, cartoline di Parigi acquerellate, cartoline con disegni giapponesi, nient’altro. “Ho fatto il giro di tutto il quartiere, ma non sono riuscito a trovarle. Sembra quasi che, da queste parti, morire sia proibito”.
Images: © Olimpia Zagnoli © Emiliano Ponzi
Soundtrack: Molly Nilsson, opera omnia