A parlare da spirito libero di questione femminile in Italia si rischia il linciaggio, se non ci si adegua al rito imposto ai maschietti di cospargersi il capo di cenere e chiedere umilmente perdono per i millenni di colpevole e umiliante subalternità a cui l’uomo, vigliaccamente e in virtù di una maggiore prestanza fisica, ha costretto la donna. C’è un problema di impostazione nell’affrontare la questione, sia quando si tratta di richiedere una sacrosanta adeguata rappresentanza politica, sia quando si tratta di combattere la piaga della violenza di genere. In entrambi i casi, la causa di tutti i mali è considerata la cultura maschilista italiana che vedrebbe nella donna un oggetto da maneggiare senza troppa cura. E certo, l’idea dell’uomo forte e della donna sottomessa ha dominato la nostra cultura per secoli e ancora ne rimane il retaggio. Quest’idea però è radicata non solo negli uomini, ma anche, e forse in misura maggiore, nell’emisfero femminile. Se si confrontassero gli atteggiamenti di subalternità calcolata e volontaria (un esempio banale, lasciare che il maschio paghi sempre il conto) delle donne italiane con quelli delle tedesche o francesi o inglesi, si potrebbe capire molto di più sull’effettiva entità della questione femminile italiana che non attraverso tutta questa retorica generalista, fatta di scarpette rosse, virginali vestiti bianchi, convegni e controconvegni.
Il cronico ritardo della rappresentanza femminile in politica e nella società in genere, rispetto alle democrazie più avanzate, non si può giustificare semplicisticamente coi retaggi maschilisti dell’italiano medio che impediscono alle donne di emergere. Soprattutto, non si può pensare di risolvere una tale annosa questione proponendo per legge una sorta di riserva indiana, per poi lasciare l’arbitrio della composizione al capo, immancabilmente maschio. Come non si può, ogni qualvolta un rapporto finisce in tragedia, chiamare in causa tutto il genere maschile. Nel vile atto di violenza di un uomo su una donna ci sono tre elementi fondamentali: il delitto che comporta una responsabilità penale, l’ambiente in cui è maturato il delitto e l’incapacità delle Istituzioni e della società civile di interagire con il disagio di tale ambiente. Il resto è metafisica fuori luogo, in quanto costruita sulla tragedia.
Questo modus operandi per rivendicare il sacrosanto diritto al rispetto dell’universo femminile non fa altro che alimentare la contrapposizione tra i sessi; una contrapposizione che, nel disagio, rischia di alimentare ulteriormente la degenerazione dei rapporti in tragedia. Basta vedere come sono stati trattati i tre omicidi di donne a ridosso dell’8 marzo e il triplice infanticidio di Lecco: nel primo caso, si è subito fatta sentire l’immancabile retorica dell’uomo orco che uccide per volontà di potenza; nel secondo, ci si è subito affrettati a dire che la sindrome di Medea non c’entrava nulla, ma che la causa è stata la paura per il futuro, alimentata dall’abbandono del marito per una compagna più giovane, sia pure con l’assicurazione del mantenimento.
A mio parere, c’è un unico comune denominatore in queste tragedie: il disagio dell’inadeguatezza che porta il più forte a sopraffare il più debole; un disagio che si combatte con il monitoraggio scrupoloso da parte delle istituzioni e dell’associazionismo, non con la contrapposizione retorica tra la donna angelicata e l’uomo mostro.
In ultimo, personalmente avrei gradito che la pantomima delle parlamentari di bianco vestite fosse stata fatta 11 mesi fa per far eleggere una donna al Quirinale, piuttosto che per garantirsi una più ampia subalternità con le quote rosa.