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Essere resilienti significa avere il controllo di sé, accettare dei disagi più o meno gravi che in una vita possono presentarsi, non temere di affrontarli ma al contrario considerarli positivamente come una sfida che, una volta vinta, ci condurrà a nuove evoluzioni. Pensate quanto era profonda questa mia lacuna. Una parola così importante dovrebbe essere insegnata a scuola assieme ad altri concetti come l’uguaglianza, il rispetto, la solidarietà e l’umiltà. Personalmente la considero di pari importanza. Ma la resilienza è un concetto innato, acquisito o biologico? La resilienza è un atteggiamento che viene innescato in risposta ad un evento più o meno traumatico che deve tener conto delle condizioni sociali, personali fisiche e psicologiche, familiari, economiche, culturali, politiche e religiose del soggetto. Può essere individuale o collettiva, temporanea, di breve o lungo termine. Esempi di resilienza sono stati associati nei sopravvissuti all’Olocausto, nei contesti bellici, nei minori provenienti da famiglia disagiate con problemi di tossicodipendenza ed abusi. La capacità di rigenerarsi dalle difficoltà è resa possibile dalle risorse che sono biologicamente presenti nel soggetto e che devono essere alimentate: la stima di sé e il potenziamento delle capacità personali. Il campo di applicazione è vasto e vario. Elementi di resilienza possono essere anche la scuola, la fede, il lavoro, l’amore, la famiglia perché in alcune situazioni, per alcuni soggetti posso essere portatori di valori positivi su cui aggrapparsi. E’ possibile insegnare ai nostri bambini a sviluppare la resilienza attraverso l’esempio, con comportamenti ed azioni positive e propositive verso ciò che ci accade. Se pensiamo ad un bambino che sta imparando a camminare, notiamo che la sua curiosità e volontà di riuscire gli impedisce di fermarsi per le innumerevoli cadute ma che al contrario lo sprona a continuare fino alla riuscita per poi essere beneficiato da quel cambiamento che lo ha portato ad una importante autonomia. Il camminare da solo! Se invece noi genitori non resistiamo all’intervento e ci intromettiamo continuamente per “aiutarlo” a rialzarsi evitando di farlo cadere, lo priviamo delle sue caratteristiche resilienti che gli permetterebbero di risolvere il problema. Il nostro compito è di incoraggiarlo, focalizzandoci sulle sue qualità e non sui suoi limiti. Non fare per lui quello che può fare già da solo ma nemmeno quello che può quasifare da solo ed è questo il punto fondamentale per insegnare ai nostri figli a fallire e quindi a tollerare la frustrazione distinguendo una volta per tutte i nostri bisogni dai loro.
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